LA CHIESA CATTOLICA E L’AUTORITÀ DEL VESCOVO DI ROMA

A cura di Giuseppe Monno

“Dove c’è Cristo, ivi è la Chiesa cattolica.” (Ignazio di Antiochia, Lettera agli Smirnesi, anno 107)

“La Chiesa di Dio che dimora a Smirne alla Chiesa di Dio che è a Filomelio e a tutte le comunità della Santa Chiesa Cattolica di ogni luogo. La misericordia, la pace e la carità di Dio Padre e del Signore nostro Gesù Cristo abbondino.” (Martirio di Policarpo, anno 155)

Le origini del primato romano nel I secolo

Verso la fine del I secolo, Papa Clemente di Roma – collaboratore dell’apostolo Paolo (Filippesi 4,3; Historia Ecclesiastica, III, 4,9; III, 15) e terzo successore di Pietro come vescovo di Roma (Adversus Haereses, III, 3,3) – scrisse una celebre lettera alla comunità di Corinto, nota come Prima lettera di Clemente ai Corinzi.

La causa di questa lettera furono i disordini interni alla Chiesa di Corinto, dove alcuni fedeli si erano ribellati contro i presbiteri legittimamente istituiti, destituendoli arbitrariamente. Papa Clemente, intervenendo da Roma e non su richiesta, ma per propria autorità, esortò i Corinzi al ravvedimento e alla sottomissione ai legittimi pastori (1Clemente 57,1-2), minacciando sanzioni spirituali per chi non avesse obbedito (1Clemente 59,1).

Eusebio di Cesarea testimonia che gli ammonimenti del vescovo di Roma furono accolti e osservati dalla comunità di Corinto (Historia Ecclesiastica, IV, 23,11), e che la lettera di Clemente fu considerata di tale autorevolezza da essere letta pubblicamente nelle assemblee liturgiche di molte Chiese (Historia Ecclesiastica, III,16).

Questo episodio costituisce una prova precoce del riconoscimento del primato romano: già nel I secolo, la Chiesa di Roma esercitava una funzione di arbitrato e di guida morale sulle altre comunità cristiane. La lettera di Clemente non solo afferma l’autorità dei vescovi e dei presbiteri sui fedeli, ma anche il ruolo della sede romana come garante dell’ordine ecclesiale e della tradizione apostolica.

La testimonianza di Ireneo di Lione

Nella seconda metà del II secolo, Ireneo, vescovo di Lione, discepolo di Policarpo di Smirne (a sua volta discepolo dell’apostolo Giovanni: Adversus Haereses, III, 3,4; Historia Ecclesiastica, V, 20,6), scrive nel suo capolavoro Adversus Haereses una delle più chiare affermazioni del primato della Chiesa di Roma:

“Poiché sarebbe troppo lungo enumerare le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima, antichissima e universalmente conosciuta, fondata e stabilita a Roma dai gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo. […] Con questa Chiesa, a motivo della sua preminente autorità, deve necessariamente accordarsi ogni Chiesa, cioè i fedeli che si trovano dappertutto, poiché in essa è stata sempre conservata la tradizione apostolica.” (Adversus Haereses, III, 3,2)

Ireneo enumera i successori di Pietro e Paolo fino al suo tempo:
Lino, Anacleto (Cleto), Clemente, Evaristo, Alessandro, Sisto, Telesforo, Igino, Pio, Aniceto, Sotero, Eleuterio (Adversus Haereses, III, 3,3).

In tal modo, egli intende mostrare che la successione episcopale romana custodisce intatta la fede apostolica, ed è quindi il criterio di ortodossia per tutte le altre Chiese. Questo passo di Ireneo è fondamentale perché rappresenta la prima formulazione sistematica del primato romano in rapporto alla tradizione e alla successione apostolica.

Il vescovo di Roma come giudice della fede nel III secolo

Un’altra testimonianza significativa proviene dal De sententia Dionysii di Atanasio di Alessandria (†373). Nella metà del III secolo, Dionisio di Alessandria, noto per il suo rigore teologico, fu accusato da alcuni presbiteri egiziani di aver espresso idee imprecise sulla Trinità, nel tentativo di confutare l’eresia sabeliana.

I sabelliani affermavano che Padre e Figlio e Spirito Santo non fossero persone distinte, ma manifestazioni o modi dell’unico Dio Padre (da cui i nomi “patripassiani” o “modalisti”). Nel reagire a tale errore, Dionisio di Alessandria aveva insistito troppo sulla distinzione tra il Padre e il Figlio, rischiando di compromettere l’unità divina.

I presbiteri egiziani si rivolsero dunque a Dionisio di Roma, chiedendogli di giudicare la questione dottrinale. Questo gesto mostra chiaramente come, già nel III secolo, il vescovo di Roma fosse riconosciuto come istanza di riferimento teologica universale. Il vescovo alessandrino rispose prontamente alla correzione romana e confermò la propria adesione all’unità trinitaria così come professata dalla Chiesa di Roma.

L’episodio mostra che, nel pensiero cristiano antico, il vescovo di Roma era considerato custode dell’ortodossia, e la sua dottrina aveva valore normativo per le altre Chiese. Tale riconoscimento non derivava da un’autorità politica o disciplinare, ma da una successione apostolica diretta da Pietro, considerato fondamento visibile dell’unità della Chiesa (cf. Matteo 16,18-19).

Sviluppo del primato e riconoscimento universale

Nei secoli successivi, il ruolo del vescovo di Roma come principio di unità e garante della fede si consolidò progressivamente.

Stefano I (†257) affermò l’autorità di Roma nelle controversie battesimali con le Chiese africane guidate da Cipriano di Cartagine, ribadendo che la comunione ecclesiale era fondata sulla cattedra di Pietro, “da cui deriva l’unità episcopale”.

Damaso I (366–384) e Innocenzo I (401–417) esercitarono una crescente influenza sulle decisioni dottrinali e disciplinari, specialmente in Oriente.

Il Concilio di Sardica (343), riconosciuto da molti come un passo preparatorio verso il concetto di appello al Papa, stabilì che un vescovo deposto potesse ricorrere al giudizio del vescovo di Roma (canoni 3–5).

Infine, nel V secolo, Papa Leone Magno (440–461) definì teologicamente il primato petrino nel Tomus ad Flavianum, approvato dal Concilio di Calcedonia (451) con le celebri parole dei padri conciliari:

“Pietro ha parlato per bocca di Leone.” (Acta Conciliorum Oecumenicorum, II,1,2, p.83)

Conclusione

Fin dai primi secoli, la Chiesa cattolica ha riconosciuto nella Sede di Roma non solo una funzione di onore, ma una vera autorità di guida e discernimento. Tale autorità si fonda su una duplice dimensione:

Storica e apostolica, per la successione diretta da Pietro e Paolo;

Teologica e spirituale, come segno visibile dell’unità della fede e della comunione ecclesiale.

Il primato romano, quindi, non è un’invenzione posteriore, ma un dato intrinseco alla struttura della Chiesa apostolica, riconosciuto progressivamente attraverso la prassi, la dottrina e la testimonianza dei Padri.

L’INCARNAZIONE: GESÙ CRISTO VERO DIO E VERO UOMO

A cura di Giuseppe Monno

Due nature, una sola Persona e un solo Io personale

Nella “pienezza del tempo” (Galati 4,4), il Verbo eterno di Dio, la Seconda Persona della Santissima Trinità, “Figlio unigenito del Padre” (Giovanni 1,14.18; 3,16), “per mezzo del quale tutto è stato fatto” (Giovanni 1,1-3; Colossesi 1,16-17), ha assunto una natura umana completa – corpo e anima razionale – unendola a sé ipostaticamente, cioè alla sua stessa Persona divina. In questo mistero ineffabile, il Verbo si fece carne (Giovanni 1,14) senza cessare di essere ciò che era: Dio vero da Dio vero.

Il Concilio di Calcedonia (451 d.C.) ha definito solennemente che in Cristo “ci sono due nature, divina e umana, senza confusione, senza mutamento, senza divisione e senza separazione”, unite nell’unica Persona del Verbo. L’unità personale del Cristo è quindi “teandrica”: tutto ciò che egli compie come uomo è realmente opera del Figlio eterno di Dio.

Il soggetto delle azioni di Cristo non è un uomo accanto a Dio, ma una sola Persona divina. Non esiste un “io umano” distinto da quello divino: il Cristo è uno della Trinità che, per la nostra salvezza, ha voluto entrare nella storia e assumere la condizione dell’uomo. Questo è il fondamento della nostra redenzione: solo un Dio fatto uomo poteva ricondurre l’uomo a Dio.

Due volontà naturali in perfetta armonia

Poiché in Cristo ci sono due nature complete, ne derivano anche due volontà naturali, come definito dal Concilio di Costantinopoli III (680-681 d.C.). Una volontà è divina, comune alle tre Persone della Trinità; l’altra è umana, propria della sua natura assunta.

La volontà umana di Gesù non è mai in contrasto con quella divina, ma le è perfettamente sottomessa e armonica. Le parole di Cristo nell’orto degli ulivi – “Padre, non come voglio io, ma come vuoi tu” (Matteo 26,39) – manifestano la verità della sua autentica umanità: un uomo che, pur nella sofferenza, aderisce pienamente alla volontà salvifica del Padre.

Questa sottomissione non è segno di debolezza, ma di amore perfetto: la volontà umana del Cristo coopera liberamente all’opera redentrice, diventando modello di obbedienza per ogni credente (Filippesi 2,8; Ebrei 5,8-9).

Due operazioni naturali

Il medesimo Concilio di Costantinopoli ha dichiarato che in Cristo vi sono due operazioni naturali, corrispondenti alle due nature. La natura divina opera secondo la potenza e la sapienza di Dio, mentre la natura umana agisce secondo la capacità e i limiti della creatura. Tuttavia, ambedue le operazioni appartengono alla medesima Persona divina.

Così, i miracoli sono propri della sua divinità, ma vengono compiuti attraverso i gesti umani di Gesù; mentre le sofferenze appartengono alla sua umanità, ma sono realmente le sofferenze del Figlio di Dio. Tutto ciò che Cristo fa e subisce è opera teandrica – divina e umana insieme – poiché procede dall’unico soggetto personale del Verbo incarnato.

La conoscenza di Cristo

Nell’unione ipostatica, anche la conoscenza di Cristo riflette la ricchezza del mistero dell’Incarnazione. La teologia cattolica distingue tre forme di conoscenza nella mente umana del Signore:

1. Conoscenza acquisita, mediante l’esperienza e l’apprendimento umano (Luca 2,52). Gesù, vero uomo, apprende e cresce anche psicologicamente, mostrando la realtà della sua umanità.

2. Conoscenza infusa, donata direttamente da Dio, che gli permette di conoscere i cuori e i segreti degli uomini (Marco 2,8; Giovanni 2,25).

3. Conoscenza beata o visione beatifica, con cui l’anima di Cristo, unita personalmente al Verbo, contempla immediatamente Dio. In essa egli conosce perfettamente la volontà divina e la storia della salvezza (Giovanni 21,17).

Come insegna la tradizione (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae III, q.9), fin dal primo istante dell’Incarnazione, Cristo gode della visione beatifica e possiede la pienezza della scienza divina, per cui conosce tutte le cose.

L’anima di Cristo e la grazia abituale

L’unione ipostatica non sostituisce l’anima umana di Cristo, ma la perfeziona con la pienezza della grazia abituale. L’anima del Signore è, dunque, la più perfetta di tutte, colma dei doni dello Spirito Santo (Isaia 11,1-3). Eppure, secondo Luca 2,52, Gesù “cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”: non perché gli mancasse qualcosa, ma perché la manifestazione esterna della sua grazia si sviluppava gradualmente nella storia della sua vita terrena.

Immediata visione di Dio e assenza della fede

Poiché Gesù è vero Dio, egli non aveva la virtù teologale della fede nel senso umano del termine. Non “credeva” in Dio: lo vedeva. La sua anima godeva fin dal primo istante dell’Incarnazione dell’immediata visione beatifica del Padre. Questa conoscenza immediata fonda la sua perfetta obbedienza e la sua libertà: Gesù non agisce per fede o per speranza, ma per amore pienamente consapevole del disegno divino. Egli sa di essere il Figlio e Redentore del mondo (Giovanni 10,17-18).

Tutto di Cristo appartiene alla Persona divina del Figlio

Poiché la natura umana di Cristo non ha un’esistenza propria separata, ma sussiste nella Persona divina del Verbo, ogni azione e sofferenza dell’uomo Gesù appartiene al Figlio di Dio. Per questo la Chiesa può proclamare – senza contraddizione – che “Dio ha sofferto e Dio è morto” (Atti 20,28). Non la divinità in sé ha sofferto o è morta, ma la carne del Verbo, che è realmente carne di Dio.

Questa verità, detta “communicatio idiomatum”, è la base del linguaggio cristologico e soteriologico: ciò che appartiene alla natura umana si può attribuire alla Persona divina, perché le nature non operano separatamente.

Il culto a Cristo: una sola adorazione nelle due nature

Cristo è adorato in una sola Persona con le sue due nature, divina e umana. L’umanità di Gesù è degna dello stesso culto di adorazione (latria) che si deve a Dio, poiché appartiene ipostaticamente al Verbo.

Il Concilio di Costantinopoli II (553 d.C.) ha affermato: “Il Figlio unigenito di Dio va adorato con la sua carne.” Perciò, il corpo, il sangue, il volto e il cuore di Gesù sono oggetto di adorazione, perché sono “propri” del Verbo incarnato. La stessa logica sostiene la realtà della presenza reale nell’Eucaristia: adoriamo Cristo intero, vero Dio e vero uomo, realmente presente sotto le specie sacramentali.

Conclusione

Il mistero dell’Incarnazione è il cuore della fede cristiana: in Gesù Cristo, Dio e uomo si sono uniti per sempre. Non due soggetti, ma uno solo: il Figlio eterno, che senza cessare di essere Dio ha voluto assumere tutto ciò che è umano, eccetto il peccato (Ebrei 4,15). In lui l’umanità è divenuta il luogo della comunione con Dio, e l’intera creazione trova la sua ricapitolazione (Efesini 1,10).

Cristo, vero Dio e vero uomo, è dunque il ponte vivente tra il cielo e la terra, il compimento dell’antica alleanza e l’inizio della nuova creazione. In lui, l’uomo vede finalmente il volto di Dio (Giovanni 14,9).

L’OSTIA NEL RITO CATTOLICO ROMANO

A cura di Giuseppe Monno

L’ostia è una piccola e sottile cialda di pane azzimo (cioè non lievitato), di forma circolare, utilizzata nella celebrazione dell’Eucaristia nel rito cattolico romano.

Il termine ostia, dal latino hostia, significa “vittima sacrificale”. Tale denominazione richiama il sacrificio di Cristo, l’Agnello immolato per la redenzione dell’umanità. Durante l’Ultima Cena, Gesù istituì il sacramento dell’Eucaristia: prese il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo:

“Prendete e mangiate: questo è il mio corpo, che è dato per voi. Fate questo in memoria di me.” (Luca 22,19)

In questo gesto si compie l’anticipazione sacramentale del sacrificio del Calvario: Gesù si offre liberamente come vittima di espiazione per i peccati del mondo, morendo sulla croce e risorgendo il terzo giorno.

Durante la Messa cattolica, la Chiesa rinnova realmente — in modo incruento — lo stesso sacrificio del Golgota. Nella consacrazione, il pane e il vino diventano vero Corpo e vero Sangue di Gesù Cristo, pur conservando le apparenze sensibili del pane e del vino: è il mistero della Transustanziazione.

Nei primi secoli del cristianesimo, il pane utilizzato per la celebrazione era spesso di forma più grande e veniva spezzato e distribuito ai fedeli (da cui il termine frazione del pane). A partire dal IV secolo, con la diffusione dell’usanza di custodire il pane consacrato per portarlo ai malati o per l’adorazione, nacque la necessità di produrre ostie più piccole, sottili e durevoli.

L’uso di conservare l’Eucaristia nel tabernacolo si affermò progressivamente, e con esso anche la forma tipica dell’ostia moderna.

Le prime testimonianze sulla forma rotonda e schiacciata provengono dall’Oriente cristiano: Epifanio di Salamina (circa 400 d.C.) scrive “hoc est enim rotundae formae”, riferendosi appunto al pane eucaristico. In Occidente, la forma circolare si diffuse nel V secolo.

I primi stampi per la realizzazione delle ostie erano in pietra o legno (VI secolo). Le ostie venivano inizialmente preparate come piccole pagnotte schiacciate, spesso ornate con immagini o iscrizioni sacre, come il monogramma IHS (abbreviazione del nome di Gesù) o la croce.

Nel Medioevo esistevano ostie di diverse dimensioni: quelle più grandi erano destinate al sacerdote celebrante e venivano spezzate e condivise con i fedeli.

Dall’XI secolo si diffusero stampi in ferro a tenaglia, inizialmente lisci, poi sempre più decorati con simboli cristiani, figure del Cristo, della Vergine o dei santi. La produzione di ostie era un compito riservato ai monasteri, in particolare a quelli maschili, anche se in seguito molte comunità di suore si specializzarono in quest’attività, che richiedeva grande cura e purezza.

Oggi le ostie vengono prodotte con farina di grano tenero e acqua, senza lievito né sale, secondo le prescrizioni liturgiche stabilite dal Codice di Diritto Canonico e dall’Ordinamento Generale del Messale Romano. Esse vengono cotte tra piastre riscaldate e poi ritagliate con stampi circolari di varie misure: le più grandi per il celebrante, le più piccole per i fedeli.

L’ostia consacrata, conservata nel tabernacolo, è adorata nella pratica del culto eucaristico e mostrata ai fedeli nell’ostensorio durante la benedizione eucaristica e le processioni del Corpus Domini.

Simbolicamente, la forma rotonda dell’ostia richiama la perfezione, l’eternità e l’unità divina. La sua fragilità e sottigliezza ricordano invece l’umiltà e la semplicità di Cristo che si dona interamente all’umanità.

SIGNIFICATO DEL FRAMMENTO DI OSTIA NEL CALICE DURANTE LA FRAZIONE DEL PANE NELLA SANTA MESSA

A cura di Giuseppe Monno

Durante l’Ultima Cena, Gesù prese il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo:

“Prendete e mangiate: questo è il mio corpo, che è dato per voi. Fate questo in memoria di me.” (cf. Matteo 26,26; Luca 22,19)

Nel ripetere questo gesto, il sacerdote, durante la celebrazione eucaristica, spezza l’ostia magna dopo l’Agnello di Dio. Questo rito, detto “frazione del pane”, è uno dei più antichi gesti liturgici cristiani: esso richiama il gesto stesso di Cristo e simboleggia la condivisione del Corpo del Signore tra tutti i fedeli, segno di comunione fraterna e di unità ecclesiale.

Dopo aver spezzato l’ostia, il sacerdote stacca un piccolo frammento e lo lascia cadere nel calice che contiene il Sangue di Cristo, pronunciando a voce bassa:

“Il corpo e il sangue di Cristo, uniti in questo calice, siano per noi cibo di vita eterna.”

Questo rito, chiamato commistione, ha un duplice significato: simbolico e teologico, ecclesiale e comunitario.

L’unione del frammento del Corpo di Cristo con il Sangue nel calice esprime l’unità inseparabile del Mistero pasquale: il Cristo crocifisso e risorto è presente tutto intero — corpo, sangue, anima e divinità — in ciascuna delle specie eucaristiche. Tuttavia, il gesto rende visibile il legame tra i due segni sacramentali, ricordando che l’Eucaristia rende presente il sacrificio di Cristo nella sua totalità, cioè la sua morte e la sua risurrezione.

Nei primi secoli della Chiesa, la commistione aveva anche un significato di comunione ecclesiale. Il Papa, durante la Messa a Roma, inviava a ogni vescovo o sacerdote una piccola parte dell’ostia consacrata — detta fermentum — che questi inserivano nel loro calice durante la Messa. Era un segno visibile di unità con il Papa, con il vescovo locale e con tutta la Chiesa cattolica, a testimoniare che tutte le Eucaristie sono celebrazione di un unico sacrificio e di un’unica fede.

Oggi, pur non avendo più il valore disciplinare di un tempo, il gesto conserva un profondo significato teologico e mistico. Esso ricorda che:

L’Eucaristia è il sacramento dell’unità di tutto il Corpo di Cristo, che è la Chiesa (cf. 1Corinzi 10,17).

In Cristo, corpo e sangue — segni della sua morte e della sua vita donata — sono inseparabili.

Partecipare all’Eucaristia significa essere uniti a Cristo e tra di noi in un vincolo di comunione viva.

Il frammento dell’ostia deposto nel calice è dunque un piccolo gesto ricchissimo di significato:

ricorda il sacrificio pasquale di Cristo nella sua unità; esprime la comunione tra i fedeli, i ministri e la Chiesa universale; rende presente il mistero della salvezza, attraverso il segno visibile dell’unione tra Corpo e Sangue del Signore.

IHS E L’OSTIA MAGNA

A cura di Giuseppe Monno

L’iscrizione IHS, che troviamo impressa sull’ostia magna consacrata dal sacerdote durante la celebrazione eucaristica, è una cristogramma, ossia una sigla formata da lettere del nome di Gesù Cristo. Essa deriva dalle prime tre lettere del nome greco di Gesù: ΙΗΣΟΥΣ (Iesous). Traslitterando in caratteri latini, si ottiene IHS (o talvolta IHC, a seconda delle varianti grafiche antiche).

Nel greco antico, le lettere Ι (iota), Η (eta) e Σ (sigma) formano la parte iniziale del nome “Iesous”. Quando il cristianesimo si diffuse nel mondo latino, queste lettere vennero progressivamente adattate al nuovo alfabeto. Tuttavia, la lettera greca eta (Η) – che rappresenta una vocale lunga – fu interpretata erroneamente come la consonante latina acca (H), da cui nacque l’abbreviazione latina IHS.

A partire dal Medioevo, il monogramma IHS cominciò a essere reinterpretato in senso mistico e simbolico, dando origine a diversi motti devozionali:

Iesus Hominum Salvator – “Gesù Salvatore degli Uomini”.

In Hoc Signo (vinces) – “In questo segno vincerai”, in riferimento alla visione di Costantino e alla croce gloriosa.

Iesus Hostia Salutis – “Gesù, Vittima di Salvezza”, espressione teologica più tarda, che sottolinea il carattere sacrificale dell’Eucaristia.

Un ruolo fondamentale nella diffusione dell’IHS come simbolo cristiano pubblico fu svolto nel XV secolo da San Bernardino da Siena (1380–1444). Il santo francescano lo propose come segno di pace e di riconciliazione nelle città italiane, spesso lacerate da fazioni e rivalità. Durante le sue predicazioni, portava una tavoletta con il sole raggiante e al centro il monogramma IHS, invitando i fedeli a venerarlo come segno dell’amore di Cristo.

Questa devozione, approvata da papa Martino V, divenne presto popolarissima. Successivamente, Sant’Ignazio di Loyola (1491–1556) adottò l’IHS come emblema ufficiale della Compagnia di Gesù (Gesuiti). Nel loro sigillo, il monogramma è inscritto in un sole fiammante, con la croce sopra la lettera H e i tre chiodi della Passione sottostanti – simboli della redenzione.

Nella liturgia cattolica, l’ostia magna porta spesso il monogramma IHS al centro. Questo non è solo un elemento ornamentale, ma un segno teologico profondo: il nome di Gesù è inscritto sulla vittima eucaristica, che rende presente il suo sacrificio redentore.
Durante la consacrazione, il pane e il vino diventano realmente – secondo la dottrina della transustanziazione – il Corpo e Sangue di Cristo. L’ostia con il monogramma “IHS” dunque non solo rappresenta, ma è veramente Gesù stesso, “Iesus Hostia Salutis”, la Vittima di salvezza per il mondo.

Il nome di Gesù ha, nella tradizione cristiana, un potere salvifico:

“Nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra” (Filippesi 2,10). Questo passo paolino fonda la teologia del Nome, per la quale il Nome stesso del Signore è fonte di grazia e di protezione. L’incisione del monogramma sull’ostia richiama questa presenza salvifica: nel momento in cui il sacerdote pronuncia le parole della consacrazione, il Nome di Gesù si unisce sacramentalmente alla sua Persona.

Nell’arte sacra e nella devozione popolare, il monogramma IHS è spesso circondato da raggi di luce o da un’aureola solare, simboleggiando Cristo come “Luce del mondo” (Gv 8,12). La croce sovrastante ricorda la Passione, mentre i tre chiodi al di sotto richiamano il sacrificio sul Calvario.

Questo simbolo, impresso sull’ostia eucaristica, unisce così linguaggio, fede e teologia, condensando in tre lettere il mistero centrale del cristianesimo:

Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, offerto come vittima di salvezza per la redenzione dell’umanità.

SIGNIFICATO DELL’ACQUA MESCOLATA AL VINO DURANTE LA CELEBRAZIONE EUCARISTICA

A cura di Giuseppe Monno

Nel rito cattolico romano, durante l’offertorio, il sacerdote versa nel calice contenente vino alcune gocce d’acqua, pronunciando sottovoce le parole:

“L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana.”

Questo gesto, semplice ma profondamente simbolico, racchiude un ricco significato teologico e spirituale.

Da un lato, l’unione dell’acqua con il vino rappresenta la nostra partecipazione alla vita divina di Cristo: come l’acqua si mescola in modo inseparabile al vino, così il fedele è chiamato a unirsi intimamente a Cristo, partecipando alla sua natura divina attraverso la grazia.

Dall’altro lato, il segno rimanda al mistero dell’Incarnazione: l’acqua simboleggia la natura umana assunta dal Verbo, mentre il vino rappresenta la natura divina del Figlio di Dio. Così come l’acqua non può più essere separata dal vino, anche la natura umana assunta da Cristo non potrà mai essere separata dalla sua persona divina. In questa unione perfetta si riflette la nostra speranza: coloro che rimangono uniti a Cristo in questa vita, non saranno mai separati da Lui nella vita eterna.

L’uso di mescolare una piccola quantità d’acqua al vino nella celebrazione eucaristica risale ai primissimi secoli del cristianesimo, ed era già attestato come consuetudine universale.

Ne parlano autori come San Giustino Martire (II secolo), che nelle sue Apologie descrive la celebrazione eucaristica con il vino “misto ad acqua”, e Sant’Ireneo di Lione, che vi vede un segno dell’unione del popolo con Cristo.

I Vangeli (Matteo 26, Marco 14, Luca 22 e 1Corinzi 11) non menzionano esplicitamente l’aggiunta dell’acqua al vino. Si limitano a riferire che Gesù prese il calice “del frutto della vite”, rese grazie e lo diede ai discepoli. Quindi non abbiamo un dato testuale che confermi il gesto. Tuttavia nel mondo ebraico e greco-romano del I secolo, il vino veniva abitualmente mescolato con acqua prima di essere bevuto.

La Mishnah e altri testi ebraici coevi testimoniano che durante il banchetto pasquale — quello in cui si colloca l’Ultima Cena — si bevevano quattro calici di vino mescolato con acqua (il termine ebraico “yayin mazug” significa vino mescolato). Questa era una pratica comune anche nelle cene solenni: l’acqua veniva aggiunta per rendere il vino più gradevole, ma anche per motivi rituali, come simbolo di purità e moderazione.Perciò, è storicamente plausibile che il vino usato da Gesù e dagli Apostoli fosse già mescolato con acqua secondo la tradizione pasquale ebraica.

Perciò, è storicamente plausibile che il vino usato da Gesù e dagli Apostoli fosse già mescolato con acqua secondo la tradizione pasquale ebraica.

Nel Messale Romano e nei testi patristici, l’acqua è interpretata come figura del popolo cristiano, che si unisce a Cristo (simbolizzato dal vino) per formare con Lui un solo corpo.

Sant’Ambrogio afferma:

“Nel calice vi è il mistero di Cristo: il vino indica il suo sangue, l’acqua il popolo. Quando si mescolano, si uniscono Cristo e il popolo; non si può separare ciò che è stato unito.” (De Sacramentis, V, 1, 7)

Nel corso del Medioevo, il gesto venne fissato nella forma che conosciamo oggi, accompagnato da una formula latina, tuttora presente nel Messale Romano:

“Per huius aquae et vini mysterium eius efficiamur divinitatis consortes, qui humanitatis nostrae fieri dignatus est particeps.”

Tradotto: “Per il mistero di quest’acqua e di questo vino, fa’ che possiamo partecipare alla divinità di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana.”

Il gesto dell’acqua nel vino racchiude dunque tre dimensioni complementari:

Cristologica: esprime l’unione inseparabile della natura umana e divina nel Cristo incarnato.

Soteriologica: rappresenta la nostra partecipazione alla vita divina attraverso la redenzione.

Ecclesiologica: simboleggia l’unione della Chiesa (l’acqua) con Cristo (il vino), nel vincolo dell’amore e della grazia.

In un piccolo gesto liturgico, dunque, si condensano i misteri centrali della fede cristiana: l’Incarnazione, la Redenzione e la comunione eterna con Dio.

NOMI TEOFORICI

A cura di Giuseppe Monno

I nomi teoforici ebraici sono nomi che contengono il Tetragramma, cioè il Nome divino Yhwh. Nella tradizione ebraica, quando il Tetragramma è posto all’inizio di un nome, si riduce alla forma Yeho, oppure Yo, come vediamo nei seguenti esempi:

Yehoshua‘ (Yhwh è salvezza), Yehonatan (Yhwh ha dato), Yoel (Yhwh Dio).

Sia Yeho che Yo riflettono un adattamento del Tetragramma (al quale sono aggiunte le vocali di ’Ădonāy), per rispettare il divieto di pronunciare il Nome divino.

Quando invece il Tetragramma si trova alla fine del nome, si conserva nella forma abbreviata yahu (alla fine di una parola, la consonante waw è traslitterata “w” o “u, quindi da Yahw a Yahu) oppure nella sua contrazione breve yah (più tarda e poetica), come vediamo in questi esempi:

Yesha‘yahu (Yhwh è salvezza), Elīyahu (Il mio Dio è Yhwh), Ovadyah (Servo di Yhwh).

Il Nome divino non era mai pronunciato per intero, ma si usavano forme abbreviate.

Quindi come vanno letti i nomi teoforici?

Yehoshua‘ (Il Signore è salvezza), Yehonatan (Il Signore ha dato), Yoel (Signore Dio), Elīyahu (Il mio Dio è il Signore), Ovadyah (Servo del Signore). Dove il Tetragramma con le vocali di ’Ădonāy va’ letto “Signore”, secondo la regola ebraica che rispetta il divieto di pronunciare il Nome divino.

COMMENTO ALLA PARABOLA DEL PADRE MISERICORDIOSO (LUCA 15,11-32)

A cura di Giuseppe Monno

La parabola del padre misericordioso si colloca nel contesto di una disputa tra Gesù e i farisei riguardo all’accoglienza dei peccatori. Il testo mette in luce un duplice movimento: da un lato la libertà del figlio minore che sceglie di allontanarsi, dall’altro la libertà del padre che decide di perdonare senza condizioni. La struttura narrativa è costruita per mettere in risalto la sproporzione tra la colpa del figlio e la reazione del padre: non un rimprovero, ma una festa.

Il vero nodo interpretativo, però, si trova nella figura del fratello maggiore, che incarna la logica della giustizia retributiva: chi è rimasto fedele si sente ingiustamente scavalcato dall’accoglienza riservata al peccatore. In lui si riflette la tentazione di ridurre il rapporto con Dio a un calcolo di meriti e ricompense.

La parabola, dunque, non si limita a raccontare un ritorno a casa, ma interroga la concezione stessa di giustizia e di amore. La misericordia del padre non elimina il valore dell’impegno, ma svela che il cuore del messaggio evangelico è la gratuità, una dimensione che supera la logica umana e invita a rivedere i nostri criteri di giudizio.

LE STIMMATE DI SAN PAOLO

A cura di Giuseppe Monno

Galati 6,17
«D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stimmate di Gesù nel mio corpo.»

Nella tradizione cattolica, le stimmate di san Paolo non vengono interpretate come un riferimento alle stimmate nel senso mistico (cioè le ferite di Cristo impresse miracolosamente, come accadrà più tardi a san Francesco d’Assisi e ad altri santi), ma in un significato diverso. San Paolo si riferisce infatti alle cicatrici, alle ferite e ai segni impressi sul suo corpo dalle persecuzioni, dalle lapidazioni, dalle flagellazioni e dalle fatiche sofferte a causa della sua missione apostolica (cfr. 2 Corinzi 11,23-25). Questi segni sono la prova concreta della sua unione a Cristo crocifisso.

Nell’antichità, gli schiavi portavano sul corpo il marchio del loro padrone. Paolo, ricorrendo all’immagine delle «stimmate», vuole indicare che la sua vita e il suo corpo appartengono interamente a Cristo, e non più a sé stesso (cfr. Galati 2,19-20). A differenza dei falsi maestri, che vantavano titoli umani o privilegi esteriori, Paolo mostra che i suoi veri «titoli» sono le sofferenze portate per amore di Cristo: esse costituiscono le credenziali che attestano la sua autentica missione apostolica.

La Chiesa cattolica, pertanto, distingue tra le stimmate di san Paolo — segni concreti delle persecuzioni subite, letti anche in chiave simbolica come marchio di appartenenza a Cristo — e le stimmate mistiche (dal Medioevo in poi), che sono fenomeni soprannaturali e inspiegabili, una partecipazione fisica e spirituale alle piaghe di Cristo.

Giovanni Crisostomo († 407)

Commento alla Lettera ai Galati, Omelia 12 (su Galati 6,17)

“Che cosa dice? Che porto sul mio corpo le ferite, e queste provengono dalle flagellazioni; infatti fu molte volte flagellato.”

San Girolamo († 420)

Commentario a Galati 6,17

“Le stimmate di Cristo nel corpo di Paolo sono le cicatrici che egli sopportò per Cristo.”

Sant’Agostino († 430)

Epistola 217, 2 ad Vitalem

“Le stimmate di Cristo non si devono intendere se non come le ferite della sua tolleranza nel corpo a causa del nome di Cristo.”

Teodoreto di Cirro († 466)

Commento a Galati 6,17

“Chiama stimmate di Cristo le ferite sofferte per Lui, con le quali fu segnato, come gli schiavi venivano segnati dai padroni.”

COMUNIONE SOTTO UNA SOLA SPECIE EUCARISTICA

A cura di Giuseppe Monno

Nel racconto dell’Ultima Cena, Cristo dice ai discepoli: «Prendete e bevetene tutti», riferendosi al vino che è divenuto realmente e sostanzialmente il suo sangue (cfr. Matteo 26,27-28; Marco 14,23-24; Luca 22,20). Questo comando indica il significato sacramentale della sua offerta di sé: tutti devono partecipare al nuovo patto che Egli istituisce.

Tuttavia, il comando di Cristo non implica necessariamente che ogni fedele debba fisicamente bere dal calice. Cristo è pienamente presente in ciascuna delle specie; pertanto, ricevere solo il pane significa partecipare pienamente al sacrificio eucaristico e al nuovo patto. Il comando “bevetene tutti” indica la partecipazione al dono totale di Cristo, e non obbliga a ricevere necessariamente anche il vino.

Cristo invita tutti a condividere il sacrificio (pane e vino), ma la realtà della presenza eucaristica permette alla Chiesa di amministrare la comunione in modo flessibile, senza che nessuno riceva meno Cristo per questo.

Ricevere la comunione sotto le due specie, quindi, non è necessario, perché Cristo è presente pienamente in ciascuna di esse. Talvolta, inoltre, non è neppure opportuno, soprattutto per motivi pratici o di prudenza. La Chiesa cattolica insegna che Gesù Cristo è completamente presente sia nel pane sia nel vino, con tutta la sostanza del suo corpo, del suo sangue, della sua anima e della sua divinità.

Ricevere solo il pane o solo il vino è sufficiente per ricevere validamente e pienamente Cristo, con tutti i benefici del sacramento eucaristico. In alcune circostanze, ricevere il calice di vino può non essere opportuno, ad esempio per motivi igienici, per il rischio di trasmissione di malattie o per la presenza di un numero elevato di fedeli che renderebbe difficile la distribuzione, soprattutto se il vino consacrato è limitato. In tali casi, la Chiesa consente e incoraggia la comunione solo sotto forma di pane.

In celebrazioni particolari si può dare la comunione sotto entrambe le specie, ma ciò non è obbligatorio. La tradizione latina ha privilegiato la comunione sotto una sola specie – quella del pane – soprattutto per motivi pratici e di devozione.

Progetta un sito come questo con WordPress.com
Comincia ora