LA CHIESA E LA BIBBIA: VERITÀ CONTRO LEGGENDA

A cura di Giuseppe Monno

Una delle accuse più ricorrenti contro la Chiesa cattolica è quella secondo cui, nel passato, essa avrebbe vietato al popolo la lettura della Sacra Scrittura. Tale affermazione, ripetuta spesso senza contesto né fondamento, nasce da un fraintendimento storico e da una visione ridotta della missione della Chiesa.

In realtà, la Chiesa non ha mai temuto la Parola di Dio: essa ne è la custode, la traduttrice e la trasmettitrice. Se oggi possediamo la Bibbia, è perché per secoli monaci, chierici e studiosi cattolici ne hanno copiato con cura i manoscritti, custodendoli nei monasteri mentre gran parte dell’Europa era devastata da guerre e carestie.

Il problema non era la Bibbia, ma l’interpretazione arbitraria

Quando, nel Medioevo e nei secoli successivi, alcuni testi vennero soggetti a restrizioni, lo scopo non era quello di “proibire la Bibbia”, ma di proteggerne il senso autentico. L’esperienza mostrava che una lettura senza formazione teologica e senza guida ecclesiale conduceva facilmente a eresie e scismi. La stessa Scrittura ammonisce: “Nessuna scrittura profetica può essere oggetto di privata spiegazione” (2Pietro 1,20).

La Chiesa, quindi, agiva non per tenere la Parola di Dio lontana dal popolo, ma per custodirla da interpretazioni che avrebbero potuto deformarla.

La questione delle traduzioni

Alcuni dicono: “La Chiesa cattolica proibiva le traduzioni in lingua volgare”. Anche questo è un mito parziale. La Chiesa non vietava le traduzioni in sé, ma esigeva che fossero fedeli e approvate. In un’epoca in cui la stampa non esisteva e ogni copia era trascritta a mano, errori o manipolazioni testuali potevano diffondersi facilmente. Per questo, il Concilio di Trento (1545–1563) chiese che le traduzioni fossero verificate per evitare abusi, specialmente dopo che alcune versioni private della Bibbia venivano usate per sostenere dottrine contrarie alla fede apostolica.

La Bibbia nel cuore della liturgia

Ben lontana dal vietare la Bibbia, la Chiesa ne ha fatto il cuore della sua vita quotidiana. Ogni Messa è intessuta di letture bibliche, Salmi, Vangelo e omelie basate sulla Parola di Dio. Da secoli, milioni di fedeli ascoltano la Bibbia proclamata e spiegata nella lingua che comprendono, attraverso la predicazione. Il monachesimo benedettino e la liturgia delle Ore hanno poi mantenuto viva la Parola di Dio giorno e notte. Se la Bibbia fosse stata vietata, non avremmo avuto né la Lectio Divina, né l’arte sacra, né la teologia cristiana fondata sulla Scrittura.

La libertà vera nasce dalla verità

Il mito del divieto cattolico nasce da una lettura moderna e individualista della fede, che riduce la libertà a un possesso privato. Ma la Chiesa comprende la libertà come comunione nella verità: leggere la Bibbia è un atto ecclesiale, non isolato. È la Chiesa, Corpo di Cristo, che ci dona la Scrittura, la interpreta e la vive. Per questo, il Concilio Vaticano II ha riaffermato con forza: “È necessario che tutti i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura” (Dei Verbum, 22). Non è un’invenzione recente, ma la continuità di una custodia millenaria.

Conclusione

Dire che la Chiesa ha proibito la Bibbia è come dire che una madre ha proibito ai figli di mangiare perché raccomanda loro di non nutrirsi di cibo avariato. La Chiesa, madre e maestra, non ha mai temuto la Parola di Dio, ma ha sempre vegliato affinché fosse trasmessa pura, integra e feconda per la salvezza delle anime. Chi oggi apre la Bibbia in qualsiasi lingua deve, consapevolmente o no, ringraziare quella stessa Chiesa che per secoli l’ha custodita con amore, anche a costo della vita dei suoi figli.

IL CONCILIO DI COSTANTINOPOLI E LA DIVINITÀ DEL FIGLIO E DELLO SPIRITO SANTO

A cura di Giuseppe Monno

Dopo il Concilio di Nicea (325), le dispute sul rapporto tra Padre e Figlio continuarono per decenni, mentre si diffondevano anche altre eresie, come il macedonianesimo, che negava la piena divinità dello Spirito Santo. Per chiarire questi punti e consolidare la fede trinitaria, l’imperatore Teodosio convocò un Concilio a Costantinopoli nel 381 d.C..

Il Concilio si svolse nella capitale dell’impero, e vi parteciparono circa 150 vescovi, in maggioranza orientali, insieme a delegati occidentali inviati dal Papa di Roma.

Obiettivi principali

Confermare il Credo Niceno: Il Concilio ribadì il Simbolo di Nicea, e sottolineò la divinità del Figlio di Dio, chiarendo ulteriormente il concetto di homoousios (consustanziale).

Affermare la divinità dello Spirito Santo: I macedoniani, detti anche pneumatomachi, sostenevano che lo Spirito Santo fosse una creatura inferiore al Padre e al Figlio. Il Concilio dichiarò lo Spirito Santo “Signore vivificante”, da adorare e glorificare insieme al Padre e al Figlio.

Completare la dottrina trinitaria: Con Costantinopoli, la Chiesa definì più compiutamente la Trinità, affermando un Dio unico in tre Persone distinte, ma consustanziali: Padre e Figlio e Spirito Santo.

Risultati e decisioni

Fu promulgato il Credo Niceno-Costantinopolitano, ancora oggi recitato nella liturgia cattolica e ortodossa.

Furono condannate le eresie ariane e macedoniane, riaffermando la piena divinità del Figlio e dello Spirito Santo.

Il Concilio stabilì anche alcune norme organizzative, rafforzando il ruolo del vescovo di Costantinopoli come secondo in dignità dopo Roma, in virtù della crescente importanza politica della città.

Significato teologico

Il Concilio di Costantinopoli completò il lavoro iniziato a Nicea:

Nicea (325) aveva dichiarato il Figlio consustanziale al Padre.

Costantinopoli (381) aggiunse la piena divinità dello Spirito Santo, confermando così la fede trinitaria completa.

In questo modo la Chiesa cattolica definì in maniera ufficiale e universale la dottrina della Trinità, un pilastro imprescindibile della fede cristiana.

Eredità

Il Credo Niceno-Costantinopolitano rappresenta la sintesi della fede cristiana primitiva contro tutte le forme di eresia che negavano la piena divinità delle Persone divine. Attraverso questi due Concili, la Chiesa stabilì una formulazione chiara e definitiva del mistero di Dio Uno e Trino, garantendo unità dottrinale e continuità con la tradizione apostolica.

IL CONCILIO DI NICEA E LA PROCLAMAZIONE DOGMATICA DELLA DIVINITÀ DI GESÙ CRISTO

A cura di Giuseppe Monno

Il dogma della divinità di Gesù fu solennemente definito durante il Concilio di Nicea, tenutosi nell’estate del 325 d.C. nel palazzo imperiale di Costantino il Grande, nella città di Nicea di Bitinia (oggi İznik, in Turchia).

Al Concilio presero parte circa 300 vescovi, in gran parte provenienti dalle province orientali dell’Impero romano, insieme a pochi rappresentanti dell’Occidente. Il Concilio fu convocato direttamente dall’imperatore Costantino, che — pur non essendo ancora battezzato — desiderava ristabilire l’unità religiosa e politica dell’Impero, turbata dalle vivaci dispute teologiche sorte attorno all’insegnamento di Ario, presbitero di Alessandria d’Egitto.

Il conflitto ariano

Secondo Ario, il Figlio di Dio non è coeterno con il Padre, ma è la sua prima e più eccelsa creatura, e con lui artefice di tutte le altre cose. Questa dottrina minava il cuore della fede cristiana, secondo la quale la salvezza viene da Dio stesso incarnatosi in Cristo: se Gesù non è veramente Dio, la redenzione non è opera divina.

Il vescovo Alessandro di Alessandria condannò le idee di Ario in un sinodo locale nel 318 d.C., scomunicandolo. Tuttavia, il movimento ariano si diffuse rapidamente in Oriente, trovando sostegno in vescovi influenti come Eusebio di Nicomedia.

Il Concilio di Nicea

Durante il Concilio, l’imperatore Costantino lasciò le questioni teologiche ai vescovi. La discussione si concentrò sul rapporto tra il Padre e il Figlio. Il vescovo Osio di Cordova, principale consigliere religioso dell’imperatore, ebbe un ruolo determinante nel guidare i lavori conciliari. Egli presiedette le sessioni a nome di Papa Silvestro, che per ragioni di età e salute non poté partecipare di persona, ma inviò due presbiteri come suoi legati.

Il vescovo Eusebio di Cesarea, stimato storico ecclesiastico, presentò un Simbolo di fede già in uso nella sua comunità. Tuttavia, il Concilio ritenne necessario precisare ulteriormente la fede, aggiungendo termini più forti per escludere ogni interpretazione ariana. Fu allora introdotto il termine greco “homoousios”, che significa “consustanziale”, “della stessa sostanza” del Padre. Con questo termine si affermava che il Figlio è veramente e pienamente Dio, non una creatura, ma della stessa natura divina del Padre.

La fede nicena

Il Simbolo di Nicea proclamò:

“Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili; e in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, generato dal Padre, unico generato, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, consustanziale al Padre…”

Con questa formulazione i Padri conciliari intesero difendere la piena divinità del Figlio di Dio e la sua uguaglianza eterna con il Padre. Ario fu condannato ed esiliato insieme ad alcuni suoi sostenitori, tra cui Eusebio di Nicomedia. Le sue opere furono bruciate e la sua dottrina dichiarata eretica.

Il ruolo di Atanasio

Tra i protagonisti del Concilio spicca Atanasio, allora giovane diacono e segretario del vescovo Alessandro di Alessandria. Più tardi, divenuto vescovo di Alessandria (328–373), Atanasio divenne il più fermo difensore dell’ortodossia nicena, affrontando esili ripetuti e persecuzioni, ma mantenendo salda la fede nella consustanzialità del Figlio con il Padre.

Grazie alla sua instancabile opera teologica e pastorale, la dottrina nicena si consolidò e, dopo decenni di controversie, fu definitivamente confermata nel Concilio di Costantinopoli del 381, che completò il Credo Niceno-Costantinopolitano, tuttora recitato durante la celebrazione della Santa Messa.

Dopo Nicea

Nonostante la condanna ufficiale, l’arianesimo non scomparve subito: anzi, nei decenni successivi trovò nuovamente appoggio presso vari imperatori e vescovi orientali. Persino Costantino, verso la fine della vita, mostrò una certa tolleranza verso gli ariani e fu battezzato da Eusebio di Nicomedia, uno dei loro esponenti. Solo gradualmente la fede nicena prevalse come dottrina universale della Chiesa.

Significato teologico e attualità

Il Concilio di Nicea non introdusse una nuova dottrina, ma confermò in termini precisi una verità già professata dalla Chiesa primitiva: Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo. Questa verità è oggi comunemente accolta non solo dalla Chiesa cattolica, ma anche dalle Chiese ortodosse e da una parte delle confessioni protestanti.

Nicea rimane così una pietra miliare della storia del cristianesimo, il momento in cui la Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, espresse in modo definitivo la fede nel mistero della Trinità e nella divinità di Cristo.

LA PREGHIERA DI GESÙ E L’UNITÀ DEI CREDENTI

A cura di Giuseppe Monno

“Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi.” (Giovanni 17,11)

Il versetto sopracitato si trova nel cuore della cosiddetta “preghiera sacerdotale” di Gesù (Giovanni 17), una delle sezioni più dense e teologicamente profonde del Quarto Vangelo. In essa, Gesù si rivolge al Padre poco prima della Passione, intercedendo per i discepoli e, più in generale, per la comunità dei credenti.

Padre Santo

La formula è unica in tutto il Nuovo Testamento. “Padre” esprime l’intimità e la comunione che Gesù vive con Dio. “Santo” sottolinea la trascendenza divina, la purezza e la separazione da ogni male. Gesù si rivolge al Padre come a Colui che è al tempo stesso intimo e trascendente. La santità di Dio è garanzia di fedeltà: Egli custodisce ciò che gli appartiene.

Custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato

L’espressione “nel tuo nome” ha una grande densità teologica. Nel linguaggio biblico, il “nome” di Dio indica la sua stessa persona, la sua presenza efficace e protettrice (cfr. Esodo 3,14; Salmi 20,2; Proverbi 18,10). Gesù chiede che i discepoli siano custoditi all’interno della comunione con Dio stesso, non semplicemente “dal pericolo”, ma nel Nome, cioè immersi nella sua identità e potenza salvifica.

“Coloro che mi hai dato” rimanda a un tema ricorrente in Giovanni: il dono reciproco tra Padre e Figlio. I discepoli sono un dono del Padre al Figlio, e il Figlio li riconsegna al Padre nella preghiera, manifestando così la perfetta circolarità dell’amore trinitario.

Perché siano una cosa sola

Il fine della custodia è l’unità. Non si tratta di semplice accordo umano o coesione morale, ma di una unità ontologica e spirituale, modellata sulla comunione tra il Padre e il Figlio. Gesù non prega che i discepoli si sforzino di essere uniti, ma che siano resi uno dal Padre, cioè che partecipino alla comunione trinitaria.

Come noi

L’unità dei discepoli è paragonata all’unità intratrinitaria. Questa similitudine non è solo morale o simbolica, ma reale: l’unità ecclesiale è il riflesso terreno dell’amore eterno tra il Padre e il Figlio, reso possibile dallo Spirito Santo. Il “come” indica partecipazione e modellamento: i credenti sono chiamati a vivere nel mondo ciò che la Trinità vive da sempre.

IL FIGLIO DI DIO FATTO UOMO

A cura di Giuseppe Monno

L’Incarnazione del Figlio di Dio è il mistero centrale della fede cristiana: il Verbo eterno, seconda Persona della Trinità, si è fatto carne per la salvezza del mondo. Tuttavia, sorge una domanda che attraversa il pensiero teologico e spirituale: perché il Figlio si è incarnato come uomo, e non come donna?

La risposta non va cercata in una presunta superiorità dell’uomo sulla donna — che la fede cristiana rifiuta decisamente — ma nel significato simbolico e salvifico della missione che Cristo doveva compiere.

Nel piano di Dio, l’essere maschio o femmina non tocca la dignità della persona: entrambi sono creati “a immagine e somiglianza di Dio” (Genesi 1,27). Tuttavia, nella storia della salvezza, Dio si serve di segni concreti per rivelare la sua azione. L’Incarnazione non è quindi una scelta di genere, ma di segno. Cristo, come “nuovo Adamo”, doveva rappresentare l’umanità intera nella sua relazione sponsale con Dio. In questo senso, il suo essere uomo è simbolo del dono attivo, dell’amore che si dona alla Chiesa, presentata come “sposa”.

Nel linguaggio biblico, Dio è spesso descritto come lo Sposo che ama e salva il suo popolo (cfr. Osea 2,16-22; Efesini 5,25-27). L’incarnazione maschile del Verbo esprime questo amore sponsale: Cristo viene a donare la vita, a offrire se stesso per la Sposa che è la Chiesa. La differenza sessuale, in questo contesto, diventa segno dell’alleanza e del dono reciproco, non una distinzione di valore.

Accanto a Cristo, l’Incarnato maschio, Dio pone la figura di Maria, la Donna per eccellenza, immacolata e piena di grazia. Se Cristo è il Redentore, Maria è la cooperatrice nella redenzione. Ella rappresenta l’umanità che accoglie, risponde e si apre al dono divino. In Maria la femminilità raggiunge la sua pienezza: l’accoglienza diventa generativa, la disponibilità diventa partecipazione attiva al mistero della salvezza.

Così, nel piano divino, maschile e femminile si illuminano a vicenda: Cristo e Maria, il nuovo Adamo e la nuova Eva, insieme realizzano la comunione perfetta tra Dio e l’uomo.

In definitiva, l’Incarnazione non esalta un sesso sull’altro, ma assume l’umanità intera. Il Figlio di Dio si è fatto uomo nel senso di “essere umano”, condividendo in tutto la nostra condizione, eccetto il peccato. La sua mascolinità è un segno storico e teologico, ma la sua opera redentrice è universale: tocca ogni persona, uomo o donna, chiamata a partecipare alla vita divina.

Dio si è incarnato come uomo per rivelare l’amore sponsale di Dio verso l’umanità e per compiere le Scritture che annunciavano il Messia come il “Figlio dell’uomo”. Tuttavia, nel mistero dell’Incarnazione, è presente e onorata anche la femminilità, nella persona di Maria e nella Chiesa, che accoglie e custodisce il dono della grazia. Così, nella logica divina, il maschile e il femminile non si oppongono, ma si completano in un’unica vocazione: partecipare all’amore redentore di Cristo.

Anche il contesto storico e culturale patriarcale ha avuto un ruolo reale – seppur secondario – nel modo in cui Dio ha scelto di rivelarsi, pur senza determinarne il significato teologico ultimo.

Dio non agisce fuori dal tempo, ma dentro la storia. Quando il Verbo si è fatto carne, ha assunto un contesto umano reale: quello del mondo ebraico del I secolo, una società fortemente patriarcale, in cui l’uomo aveva visibilità pubblica e autorità legale. In tale contesto, se il Messia fosse apparso come donna, la sua missione pubblica — insegnare, fondare una comunità, essere accolto come maestro — non sarebbe stata culturalmente possibile. Dio ha dunque scelto di incarnarsi in una forma che potesse essere ascoltata e riconosciuta, senza che ciò implichi preferenza o superiorità maschile.

La Chiesa riconosce che Dio si adatta al linguaggio umano per comunicare la verità eterna. Il fatto che Gesù sia uomo è anche un adattamento pedagogico: Dio si è espresso in una forma che potesse essere compresa e accolta nel suo tempo. Ma il senso profondo dell’Incarnazione va oltre: Cristo rappresenta l’intera l’umanità, non solo la parte maschile. Egli si è fatto “Figlio dell’uomo” (Marco 10,45), cioè figlio dell’umanità intera.

Paradossalmente, proprio entrando in un mondo patriarcale come uomo, Gesù ha rovesciato le logiche del patriarcato. Nel suo comportamento, Gesù si fa discepolo del Padre, non dominatore; parla pubblicamente con le donne; le accoglie come testimoni privilegiate della risurrezione e affida loro ruoli di profonda dignità spirituale.

In Lui, la mascolinità non è potere ma servizio; e la femminilità, in Maria e nella Chiesa, diventa simbolo della risposta perfetta all’amore divino.

Perciò il contesto patriarcale ha influito sulla forma storica dell’Incarnazione, ma non sul suo significato essenziale. Dio ha parlato con il linguaggio del suo tempo per essere compreso, ma il messaggio di Gesù ha superato ogni cultura, affermando la piena uguaglianza e dignità di uomo e donna davanti a Dio.

Nel disegno divino, la mascolinità di Cristo e la femminilità di Maria non riflettono gerarchie, bensì complementarietà e reciprocità nell’amore redentore.

SESTO COMANDAMENTO: NON COMMETTERE ATTI IMPURI

A cura di Giuseppe Monno

Testo biblico e significato originario

Nella Sacra Scrittura leggiamo come sesto comandamento:

“Non commettere adulterio.” (Esodo 20,14; Deuteronomio 5,18)

Nel contesto veterotestamentario, il termine “adulterio” indicava principalmente la violazione del vincolo matrimoniale: un uomo o una donna sposati che intrattenevano relazioni sessuali con una persona diversa dal coniuge. Tuttavia, fin dalle origini, la Legge divina tendeva a custodire non solo la fedeltà coniugale, ma la purezza del cuore e del corpo, come espressione della fedeltà a Dio stesso.

Gesù, nella Nuova Alleanza, ne svela la pienezza morale:

“Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.” (Matteo 5,27-28)

Con queste parole, Cristo porta il comandamento al livello interiore, affermando che la purezza non riguarda soltanto gli atti esteriori, ma anche le intenzioni e i desideri del cuore.

Il significato teologico del sesto comandamento

Il comandamento “Non commettere atti impuri” – come formulato nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) – non si limita all’adulterio, ma abbraccia tutta la dimensione morale della sessualità umana, creata da Dio come dono e segno dell’amore e della comunione tra le persone.

La sessualità, nel disegno divino, è ordinata all’amore coniugale e alla procreazione (cfr. CCC 2331-2336). Essa non è soltanto un istinto biologico, ma parte integrante della persona, chiamata a donarsi in modo totale e fedele.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma:

“La castità significa l’integrazione riuscita della sessualità nella persona, e conseguentemente l’unità interiore dell’uomo nel suo essere corporeo e spirituale.” (CCC 2337)

Dunque, vivere il sesto comandamento non significa solo evitare il peccato, ma vivere la castità secondo lo stato di vita:

i coniugati, nella fedeltà reciproca;

i consacrati, nella perfetta continenza per il Regno dei cieli;

i celibi e i fidanzati, nella purezza e nella temperanza.

Peccato mortale e peccato veniale

Il peccato mortale, come insegna la Chiesa, è un’offesa grave a Dio che spezza la comunione con Lui e ci priva della grazia santificante. Esso richiede tre condizioni (cfr. CCC 1857-1859):

1. Materia grave, come precisata dai Dieci Comandamenti.

2. Piena consapevolezza della gravità dell’atto.

3. Deliberato consenso della volontà.

Se manca anche una sola di queste condizioni, il peccato, pur restando disordinato, non è mortale ma veniale.

I peccati contro la purezza e l’ordine della sessualità

I peccati contro il sesto comandamento comprendono tutti gli atti sessuali contrari al disegno di Dio, ossia quelli che separano la sessualità dal suo duplice fine: l’amore coniugale e la fecondità. Tra questi si annoverano:

Adulterio: violazione della fedeltà coniugale.

Fornicazione: rapporti sessuali tra persone non sposate.

Pornografia: riduzione della persona a oggetto di piacere.

Prostituzione: mercificazione del corpo e della sessualità.

Masturbazione (autoerotismo): uso disordinato della sessualità, chiuso in sé stesso.

Atti omosessuali: contrari all’ordine naturale della sessualità e alla complementarità dei sessi (CCC 2357-2359).

Stupro, incesto, pedofilia, bestialità, necrofilia: gravi violazioni della dignità della persona e della legge naturale.

Pensieri e desideri impuri volontariamente coltivati.

Baci e carezze volontariamente eccitanti fuori dal matrimonio, che predispongono all’atto sessuale.

La Chiesa distingue tra la colpa morale oggettiva e la responsabilità soggettiva, che può essere attenuata da fattori psicologici, abitudini inveterate o immaturità affettiva (CCC 2352). Tuttavia, l’atto in sé resta oggettivamente disordinato e contrario alla legge divina.

La virtù della castità

La castità è la virtù che permette di vivere la sessualità secondo la ragione e la fede. Non è repressione, ma amore ordinato, che integra il desiderio nel dono di sé.

Essa si alimenta mediante la preghiera e i sacramenti, soprattutto l’Eucaristia e la Confessione; la vigilanza sui sensi e sulla fantasia; la modestia nel comportamento e nel linguaggio; la direzione spirituale e la pratica delle virtù (temperanza, umiltà, carità).

Il casto non è colui che non prova desiderio, ma chi ama nella verità, rispettando la dignità propria e altrui.

La purezza del cuore: un cammino di libertà

Gesù dice: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.” (Matteo 5,8)

La purezza del cuore è molto più che una disciplina morale: è una condizione spirituale che permette all’uomo di vedere Dio in ogni cosa e di riconoscere nell’altro un fratello o una sorella, non un oggetto di possesso.

La purezza libera l’amore, purifica il desiderio e orienta l’uomo alla comunione con Dio. È un cammino di libertà interiore, sostenuto dalla grazia e dalla misericordia divina.

La misericordia e la conversione

Chi cade nei peccati contro la purezza non deve disperare: “Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia.” (Romani 5,20)

Il sacramento della Riconciliazione resta il luogo privilegiato in cui la misericordia di Dio rigenera il cuore, restituisce la pace e rafforza la volontà per riprendere il cammino della castità.

Conclusione

Il sesto comandamento non è una semplice proibizione, ma una chiamata alla pienezza dell’amore, nella verità del corpo e dello spirito. La sessualità, ordinata all’amore e alla vita, diventa così un linguaggio sacro con cui l’uomo e la donna partecipano al mistero creativo e redentivo di Dio.

“La castità è la scuola della libertà umana. L’amore non è possesso, ma dono.”
(San Giovanni Paolo II, Catechesi sull’amore umano, 1980–1984)

LA PREGHIERA DELL’AVE MARIA

A cura di Giuseppe Monno

La preghiera dell’Ave Maria trova le sue radici dirette nella Sacra Scrittura. È un vero “vangelo in miniatura” che raccoglie le parole stesse dell’angelo Gabriele e di santa Elisabetta, unite alla fede della Chiesa.

Ave, o Maria, piena di grazia, il Signore è con te

Queste parole (Luca 1,28) aprono l’episodio dell’Annunciazione. Il saluto dell’angelo Gabriele a Maria — in greco “chaire” — non è un semplice saluto, ma un invito profondo alla gioia. È lo stesso verbo che i profeti dell’Antico Testamento utilizzano per annunciare la venuta del Messia (cfr. Sofonia 3,14-17; Gioele 2,21).

Maria è chiamata kecharitōménē, participio perfetto passivo che indica una condizione stabile e permanente: “colei che è stata e rimane piena di grazia”. È la donna rigenerata dallo Spirito Santo, la “figlia di Sion” in cui Dio viene ad abitare. Il “Signore è con te” non è solo un augurio, ma un’affermazione di presenza: come l’Arca dell’Alleanza custodiva la Parola di Dio, così Maria porta in sé il Verbo fatto carne (cfr. Giovanni 1,14).

Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù

Queste parole sgorgano dal cuore di Elisabetta (Luca 1,42), che “fu piena di Spirito Santo” (Luca 1,41). La benedizione divina che inonda Maria e il frutto del suo grembo manifesta la nuova Alleanza inaugurata nel suo seno.

Il termine greco koilía significa letteralmente “cavità”, “grembo”, ma nel linguaggio biblico designa la sede della vita. Il latino ventris (ventre) fu tradotto nella liturgia italiana con “seno”, per sottolineare la dimensione affettiva e materna. L’aggiunta del nome “Gesù”, assente nel testo di Luca, appare già nei primi secoli come confessione esplicita del nome che salva (cfr. Filippesi 2,9-11; Atti 4,12).

Santa Maria, Madre di Dio

Maria è “santa” perché è stata santificata dalla grazia divina fin dal primo istante della sua esistenza. L’angelo la chiama kecharitōménē, “piena di grazia”: in lei la grazia non solo abita, ma regna.

Chiamarla “Madre di Dio” (Theotokos) significa riconoscere in Gesù la piena divinità. Quando Elisabetta esclama: “A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?” (Luca 1,43), utilizza il termine Kyrios mou — “Signore mio” — che nella Bibbia greca (Settanta) traduce l’ebraico ’Adonay, utilizzato al posto del sacro Tetragramma Yhwh, per un’antica regola ebraica. Elisabetta, illuminata dallo Spirito Santo, proclama che Maria è Madre del Signore Dio.

Il titolo Theotokos fu solennemente definito al Concilio di Efeso (431), contro l’eresia nestoriana, per affermare che il Figlio concepito nel grembo di Maria è la stessa Persona divina del Verbo. Come insegna san Tommaso d’Aquino:

“La Vergine Maria è Madre di Dio non perché madre della divinità, ma perché è madre, secondo la natura umana, di una Persona che possiede la divinità e l’umanità” (Summa Theologiae, III, q. 35, a. 4, ad 2).

Maria ha generato secondo la carne il Verbo eterno del Padre, il quale, unendo a se stesso ipostaticamente una carne animata da un anima razionale, rimase vero Dio e divenne vero uomo (cfr. Giovanni 1,14; Galati 4,4).

I Padri della Chiesa esaltarono questo mistero:

Sant’Atanasio afferma che “il Figlio di Dio si fece uomo, e la Vergine Maria fu Madre di Dio secondo la carne” (cfr. De Incarnatione Verbi Dei, 54,3; Epistola ad Epictetum, 7).

San Cirillo d’Alessandria, difendendo la fede di Efeso, scrive: “Se qualcuno non confessa che l’Emmanuele è vero Dio e che perciò la Santa Vergine è Madre di Dio, sia anatema” (Epistola ad Nestorium).

Prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte

Questa seconda parte, aggiunta nei secoli successivi, esprime la fede nella potente intercessione di Maria. La sua intercessione è già prefigurata alle nozze di Cana (Giovanni 2,1-11), dove per la sua supplica Gesù anticipa “l’ora” della manifestazione della sua gloria.

Maria è mediatrice subordinata e partecipata: non sostituisce Cristo, unico Mediatore (1Timoteo 2,5), ma coopera come madre nell’opera della salvezza. Come ai piedi della croce riceve il discepolo amato come figlio (Giovanni 19,26-27), così continua dal cielo ad intercedere per tutti i figli del suo Figlio.

La Scrittura mostra che i santi presso Dio possono intercedere per noi (cfr. 2Maccabei 15,12-16; Apocalisse 5,8; 8,3-4). Maria, pienamente unita a Cristo, partecipa in modo singolare a questa comunione dei santi.

La Chiesa crede che la Vergine glorificata in anima e corpo (dogma dell’Assunzione, Pio XII, Munificentissimus Deus, 1950) continua a servire Dio e a intercedere per i suoi figli. San Bernardo la chiama Advocata nostra, e san Luigi Maria Grignion de Montfort la descrive come “l’aquedotto per cui passano tutte le grazie”.

“Adesso e nell’ora della nostra morte” significa che Maria accompagna il cristiano in ogni momento, ma specialmente nel passaggio decisivo verso l’eternità. Come pregava san Bonaventura:

“O Maria, sii tu la scala che mi conduca al cielo”.

Amen — La fede della Chiesa in Maria

L’Amen finale è la nostra adesione fiduciosa. È come dire: “Così è vero”. Fin dai primi secoli i cristiani riconobbero in Maria la Madre di Dio e ricorrevano alla sua protezione. La più antica preghiera mariana conosciuta, in greco, risale al III secolo ed è tuttora in uso:

“Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio;
non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova,
ma liberaci da ogni pericolo,
o Vergine gloriosa e benedetta.”

Questo Sub tuum praesidium — ritrovato in un papiro egiziano del 250 circa — testimonia che i cristiani invocavano Maria come Theotokos due secoli prima del Concilio di Efeso. Da allora, attraverso i secoli, l’Ave Maria è divenuta la preghiera del popolo di Dio: un condensato del Vangelo, una sintesi di fede e di amore, una continua contemplazione del mistero dell’Incarnazione.

San Giovanni Paolo II la definì “una preghiera cristologica”, perché “nel cuore dell’Ave Maria vibra il nome di Gesù” (Rosarium Virginis Mariae, 2002). Pregare l’Ave Maria significa entrare nel dialogo tra Dio e l’umanità, ripetendo le parole con cui il cielo ha salutato la terra redenta.

L’Ave Maria è una preghiera semplice e insieme profondissima. Ogni volta che la recitiamo, ripetiamo il “sì” di Maria, accogliendo nella nostra vita il Signore. Essa è la voce della Chiesa Sposa che si unisce alla Madre del suo Sposo, implorando la grazia e lodando la misericordia divina.

“Tutte le generazioni mi chiameranno beata, perché grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente” (Luca 1,48-49).

LA CHIESA CATTOLICA

A cura di Giuseppe Monno

La Chiesa cattolica fu fondata nel I secolo d.C. da Gesù Cristo, il quale affidò agli apostoli la missione di annunciare il Vangelo a tutte le genti (cfr. Matteo 28,19-20).

L’appellativo “cattolica” deriva dal greco katholikḗ e significa “universale”, indicando la vocazione della Chiesa ad abbracciare tutti i popoli della terra. Il termine compare per la prima volta nella Lettera di Ignazio di Antiochia – vescovo e martire del II secolo – ai cristiani di Smirne:

“Dove c’è Gesù Cristo, lì è la Chiesa cattolica” (Smirnesi, VIII, 2)

Fin dai primi decenni successivi alla morte e resurrezione di Cristo, la Chiesa conobbe una rapida espansione nell’Impero romano grazie alla predicazione degli apostoli, in particolare di Pietro e Paolo, che, secondo la tradizione, subirono il martirio a Roma durante il regno di Nerone (64-67 d.C.).

Nei primi tre secoli la Chiesa fu duramente perseguitata dai romani, poiché rifiutava il culto all’imperatore e agli dèi pagani. Le persecuzioni più violente si verificarono sotto gli imperatori Decio (249-251), Valeriano (257-260) e soprattutto Diocleziano (303-305). In questo periodo, i cristiani si riunivano clandestinamente nelle catacombe per celebrare l’Eucaristia.

Nelle Scritture, in particolare nella Prima Lettera di Pietro (5,13) e nell’Apocalisse (17,5-9), Roma è talvolta indicata simbolicamente come “Babilonia”, in riferimento alla sua corruzione morale e alla persecuzione dei fedeli.

La situazione cambiò radicalmente con l’imperatore Costantino il Grande. Dopo la vittoria su Massenzio al Ponte Milvio (312), Costantino attribuì il suo successo all’intervento del Dio cristiano. L’anno successivo, con l’Editto di Milano (313), emanato insieme a Licinio, venne concessa la libertà di culto a tutte le religioni, ponendo fine alle persecuzioni contro i cristiani.

Da quel momento la Chiesa poté svilupparsi liberamente, costruendo basiliche, organizzando la propria struttura gerarchica e definendo progressivamente la propria dottrina.

Nel 380, con l’Editto di Tessalonica, promulgato dagli imperatori Teodosio I, Graziano e Valentiniano II, il cristianesimo – nella forma ortodossa definita dal Primo Concilio di Nicea (325) – fu proclamato religione ufficiale dell’Impero romano. L’editto condannava l’arianesimo e proibiva i culti pagani. Da allora il cristianesimo divenne elemento fondante della cultura e della vita politica europea.

Con il passare dei secoli, dispute teologiche e motivazioni politiche portarono a profonde divisioni nel cristianesimo:

Lo Scisma d’Oriente (1054) separò la Chiesa di Roma da quella di Costantinopoli, dando origine alla Chiesa ortodossa. Le principali cause furono il primato del Papa e alcune differenze dottrinali, come la questione del Filioque.

Lo Scisma d’Occidente, più propriamente detto Riforma protestante, fu avviato da Martino Lutero nel 1517. Questo movimento contestava la corruzione ecclesiastica e alcune dottrine della Chiesa romana, dando origine a numerose comunità protestanti.

Da quel momento, l’aggettivo “cattolico” assunse un significato confessionale, riferendosi a coloro che rimanevano in comunione con il vescovo di Roma, cioè il Papa, successore di san Pietro.

Nel XIX secolo, in seguito al Concilio Vaticano I (1869-1870), che definì il dogma dell’infallibilità papale, un gruppo di cattolici contrari a tale definizione si separò da Roma, dando vita al movimento dei “vetero-cattolici”.

Oggi, la Chiesa cattolica romana conta oltre 1,3 miliardi di fedeli nel mondo, rappresentando la più numerosa comunità cristiana. Essa è guidata dal Papa, vescovo di Roma e successore di Pietro, e si articola in numerose diocesi diffuse in tutti i continenti.

La storia della Chiesa cattolica è quella di un’istituzione che, nonostante persecuzioni, divisioni e riforme, ha mantenuto nel corso dei secoli la sua missione universale: annunciare il Vangelo di Cristo e testimoniare la carità nel mondo.

PATERNITÀ ONTOLOGICA DI DIO

A cura di Giuseppe Monno

Dio è spirito (Giovanni 4,24) e trascende tutte le categorie umane di genere. Ciò significa che Dio non ha corpo né sesso biologico; non è maschio né femmina nel senso umano. Il termine “Padre” non va inteso come mascolinità biologica, ma come modo simbolico e relazionale per descrivere la sua vita interna e la sua relazione con il Figlio.

Dio è “Padre” dall’eternità perché la sua è una paternità ontologica, intrinseca alla sua essenza divina: Il Padre genera eternamente il Figlio unigenito, senza inizio né fine nel tempo. Questa generazione è interna alla Trinità: il Padre non ha bisogno della creazione per essere Padre, lo è per natura. La sua paternità eterna indica quindi origine, sorgente e capacità generativa all’interno della vita divina.

Chiamare Dio “Padre” serve a comunicare due idee fondamentali:

  1. Origine e generazione: il Padre è la sorgente eterna della vita e dell’amore, il principio generativo della Trinità.
  2. Distinzione interna nella Trinità: senza il Padre, non ci sarebbe il Figlio; la relazione eterna tra Padre e Figlio definisce l’identità trinitaria.

La maternità, invece, simboleggia ricezione, nutrimento e cura. Queste caratteristiche non mancano a Dio, ma nella struttura interna della Trinità non costituiscono la funzione generativa primaria.

Dio è Padre perché la sua paternità è ontologica, appartiene alla sua essenza. Il Padre genera eternamente il Figlio, creando la relazione interna della Trinità.

La maternità non sarebbe compatibile con questa funzione generativa eterna: rappresenta invece accoglienza e cura, attributi che Dio possiede ma che non definiscono la struttura trinitaria interna.

Dio è Padre dall’eternità perché la sua generazione eterna del Figlio è ciò che lo definisce come Padre, mentre la maternità non potrebbe svolgere la stessa funzione ontologica nella Trinità. Non perché sia inferiore o meno divina, ma perché indica un tipo diverso di relazione.

La generazione del Figlio dal Padre è spirituale, non fisica: non implica corpo, tempo o materia. È una processione eterna. In questa relazione eterna, il termine “Padre” esprime la funzione di principio originante, la sorgente dalla quale procede il Figlio.

Nel linguaggio umano e simbolico, la maternità implica due elementi fondamentali:

  1. Ricezione: la madre accoglie in sé il seme e lo fa crescere.
  2. Accoglienza e nutrimento: la madre custodisce e fa maturare ciò che ha ricevuto.

Invece, nella relazione trinitaria, Dio Padre non riceve da nessuno: Egli è “principium sine principio”, il principio assoluto, l’origine senza origine. Se si parlasse di “Madre”, si introdurrebbe un’idea di ricezione o di dipendenza che nella Trinità non esiste in Dio: il Padre non riceve, ma genera da sé.

Non è questione di genere, ma di principio. La distinzione non è maschio/femmina, ma origine/accoglienza: Il Padre è l’origine assoluta, la sorgente eterna della vita divina. Il Figlio è l’eternamente generato, cioè riceve la vita dal Padre. Lo Spirito Santo è l’amore procedente tra Padre e Figlio.

In questo linguaggio relazionale, la parola “Padre” è la più adatta per indicare principio senza principio, mentre “Madre” implica simbolicamente l’accoglienza di qualcosa ricevuta da un’altro, e quindi non rappresenterebbe l’auto-originazione divina.

Dunque, la maternità non può svolgere la stessa funzione ontologica nella Trinità, perché indica una relazione di ricezione e accoglienza, non di origine assoluta. Il Padre, invece, è principio senza principio, la sorgente eterna della divinità. Il linguaggio trinitario non riguarda il genere, ma la struttura delle relazioni eterne in Dio.

Dio è Padre non perché sia maschio, ma perché è origine senza origine, colui che genera eternamente il Figlio. “Madre” non esprime adeguatamente questa funzione ontologica, perché nella sua simbologia umana e teologica indica accoglienza, non principio assoluto.

L’IMMACOLATA CONCEZIONE

A cura di Giuseppe Monno

La dottrina dell’Immacolata Concezione – secondo cui la Beata Vergine Maria fu preservata immune dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento – costituisce uno dei misteri più alti della fede cattolica e una delle più luminose manifestazioni della grazia di Cristo. Pur essendo spesso fraintesa o contestata da alcuni ambienti protestanti, essa si radica profondamente nella Scrittura, nella Tradizione e nello sviluppo coerente del Magistero della Chiesa. Comprenderla significa contemplare la Redenzione non soltanto come guarigione, ma come prevenzione e trionfo perfetto del peccato.

La Sacra Scrittura non contiene l’espressione “Immacolata Concezione”, ma ne custodisce con chiarezza la realtà. L’angelo Gabriele saluta Maria con il titolo unico kecharitomene (Luca 1,28), termine greco che non significa semplicemente “favorita” o “benedetta”, ma “colei che è stata e rimane ricolmata di grazia”. La forma verbale, un participio perfetto medio-passivo femminile singolare, indica un’azione divina compiuta nel passato e i cui effetti perdurano nel presente: Maria è, fin dall’inizio della sua esistenza, in uno stato di grazia piena e permanente. Se il peccato originale implica la perdita della grazia, è teologicamente coerente riconoscere che chi è pienamente ricolma della grazia non sia mai stata toccata dal peccato.

Questa lettura biblica trova eco nel misterioso annuncio di Genesi 3,15: la “Donna” e la sua “stirpe” sono poste in inimicizia radicale contro il serpente. L’inimicizia perfetta non ammette alcuna alleanza, neppure momentanea: l’interpretazione cristiana tradizionale ha sempre visto in questa Donna la figura di Maria e in questa inimicizia la sua totale immunità dal peccato.

Qualcuno obietta che san Paolo afferma: “Tutti hanno peccato” (Romani 3,23). La Chiesa non nega questa verità, ma riconosce che, come ogni legge generale, può ammettere eccezioni per volontà divina. Anche Cristo, vero uomo, è senza peccato: nessuno interpreta Romani 3,23 come una negazione della sua santità. Allo stesso modo, Maria è preservata dal peccato per mezzo di Cristo, non al di fuori di Lui.

La Redenzione, infatti, non è limitata dal tempo: Dio può applicare i meriti di Cristo in modo anticipato. Così come il sacrificio del Calvario salva retroattivamente i giusti dell’Antico Testamento, allo stesso modo può prevenire Maria dal contrarre il peccato originale. Nella bolla Ineffabilis Deus (1854), Pio IX sintetizza magistralmente questo mistero definendo l’Immacolata Concezione come una “redenzione in modo più sublime”: Maria è la prima dei redenti, non perché fosse sottratta all’opera di Cristo, ma perché ne ha beneficiato in modo più perfetto.

Un’altra obiezione afferma che riconoscere a Maria la preservazione dal peccato originale rischia di oscurare il ruolo unico di Cristo, l’unico realmente senza peccato. Ma è vero esattamente il contrario: l’Immacolata Concezione manifesta la potenza infinita della grazia di Cristo, capace non solo di perdonare, ma di prevenire il peccato. La santità di Maria non è una diminuzione del Redentore, ma il suo trionfo. Negare la possibilità di una redenzione così perfetta equivarrebbe, in fondo, a limitare l’efficacia della grazia.

La Chiesa, nel definire questo dogma, non “inventa” una dottrina nuova, ma chiarisce ciò che fin dalle origini è stato creduto, pregato e professato. Gesù ha promesso ai suoi apostoli che lo Spirito avrebbe guidato la Chiesa “alla verità tutta intera” (Giovanni 16,13). La fede nel privilegio mariano è presente già nei Padri della Chiesa, che chiamano Maria “tutta pura”, “senza macchia”, “incorrotta”. La liturgia orientale, sin dai primi secoli, la invoca come Panaghia, la “Tutta Santa”. La teologia medievale, soprattutto con Duns Scoto, chiarirà in modo decisivo l’armonizzazione tra l’universalità della Redenzione e il privilegio mariano, preparando il terreno alla definizione dogmatica.

La santità di Maria non è un semplice ornamento spirituale, ma una verità profondamente legata alla sua missione. La maternità divina esigeva una purezza unica: Colei che doveva portare nel suo grembo il Figlio di Dio non poteva essere nemmeno per un istante macchiata dal peccato. La tradizione biblica vede nell’Arca dell’Alleanza — costruita con legno incorruttibile e rivestita d’oro purissimo — una figura di Maria, la nuova Arca che porta non le tavole della Legge, ma il Verbo fatto carne. Se la figura era così santa, quanto più la realtà?

L’Immacolata Concezione non è un privilegio isolato, ma un segno profetico della vocazione dell’intera Chiesa. In Maria contempliamo ciò che la grazia di Cristo vuole e può compiere in ogni credente: la vittoria piena e definitiva sul peccato. Maria è la primizia della nuova creazione, la “Donna vestita di sole” (Apocalisse 12,1), immagine della Chiesa glorificata.

Contemplare l’Immacolata Concezione significa contemplare il cuore stesso della Redenzione. In Maria, Dio mostra non solo ciò che vuole dare alla nuova Eva, ma ciò che desidera realizzare in ciascuno dei suoi figli: una vita pienamente redenta, libera dal peccato e immersa nella sua grazia. Maria Immacolata non è solo Madre del Salvatore, ma anche specchio purissimo della Chiesa e promessa della gloria futura. In Lei, “tutta bella e senza macchia”, risplende la potenza trasfigurante dell’amore di Cristo, che salva, purifica e rinnova l’intera umanità.

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