L’espressione “Maria è onnipotente per grazia” è una formula teologica antica e delicata, che va capita nel suo senso corretto, non letterale né paragonabile all’onnipotenza di Dio.
L’onnipotenza appartiene solo a Dio
Secondo la dottrina cattolica, solo Dio è onnipotente per natura. Solo Lui può creare dal nulla, dominare tutte le cose e agire senza limiti. Maria, come ogni creatura, non ha poteri propri: tutto ciò che è e fa viene da Dio.
Cosa significa allora “onnipotente per grazia”
La Chiesa — in particolare autori come san Bernardo di Chiaravalle e sant’Alfonso Maria de’ Liguori — hanno fatto uso dell’espressione “omnipotentia supplex” (“onnipotente per grazia”) per indicare la potenza dell’intercessione di Maria presso Dio.
In altre parole:
Tutto ciò che Maria chiede a Dio, lo ottiene, non perché sia lei divina, ma perché Dio, nella sua volontà, ha deciso di non negarle nulla di ciò che domanda. È una forma poetica e teologica per dire che Maria ha piena comunione con la volontà di Dio, e che le sue preghiere sono sempre efficaci, perché perfettamente conformi a ciò che Dio vuole concedere.
Una formula antica e approvata nel linguaggio devozionale
San Bernardo di Chiaravalle diceva: “Dio ha voluto che tutto ci venisse per mezzo di Maria.”
E sant’Alfonso Maria de’ Liguori la definisce: “Onnipotente per grazia, perché ottiene da Dio ciò che vuole.”
Questa espressione non è un dogma, ma una forma devozionale e teologica che riflette l’intensità dell’amore e della fiducia che i santi ripongono nella sua intercessione.
Il secondo comandamento, come formulato nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC 2142-2167), afferma:
“Non pronuncerai il nome del Signore, tuo Dio, invano” (Esodo 20,7; Deuteronomio 5,11).
In questa parola, Dio chiede al suo popolo un atteggiamento di profonda riverenza nei confronti del suo Nome, che nella mentalità biblica non è un semplice suono o una designazione convenzionale, ma il segno della presenza stessa di Dio, della sua santità e della sua identità rivelata. Pronunciare il nome di Dio significa entrare in relazione con Lui; perciò, abusarne è un atto di profanazione.
Il significato teologico del Nome di Dio
Nel linguaggio biblico, il “nome” è una realtà viva: indica la persona nella sua essenza e nel suo mistero. Quando Dio rivela a Mosè il suo Nome – “Io sono colui che sono” (Esodo 3,14) – Egli si manifesta come l’Essere sussistente, fedele e presente nella storia. Il Nome divino diviene così un simbolo sacrale, che racchiude la verità e la fedeltà di Dio al suo popolo.
Il comandamento dunque non si limita a proibire la bestemmia, ma invita a custodire il mistero divino con timore e amore. Nominare Dio invano significa ridurlo a strumento per fini umani: è la tentazione di usare il sacro per giustificare la menzogna, l’ingiustizia o la vanità. San Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, II-II, q. 122, a. 3) afferma che questo comandamento tutela la pietà, cioè il giusto atteggiamento di riverenza verso Dio, che si manifesta anzitutto nel linguaggio.
L’interpretazione dei Padri della Chiesa
I Padri hanno spesso meditato su questo precetto, collegandolo alla purezza della fede e alla sincerità del cuore.
Sant’Agostino (De Sermone Domini in Monte) ricorda che il Nome di Dio non deve essere pronunciato se non per onorarlo o per invocarlo con fede. L’uomo che giura falsamente o usa il Nome divino per scopi egoistici tradisce la verità di Dio, poiché “chi mente su Dio mente contro se stesso, che è immagine di Dio”.
San Giovanni Crisostomo ammoniva i cristiani di non mescolare il Nome santo alle trivialità quotidiane: “Chi nomina Dio con leggerezza ne sminuisce la maestà, come se il Signore fosse compagno di chiacchiere e non il Re dell’universo”.
Origene (Commento all’Esodo) sottolineava che il Nome del Signore è “potente e salvifico” solo quando è pronunciato in uno spirito di fede, perché “non la parola, ma il cuore che la pronuncia determina la sua santità”.
Il Nome di Gesù e la sua piena rivelazione
Nel Nuovo Testamento, la rivelazione del Nome di Dio raggiunge la sua pienezza in Gesù Cristo. San Paolo afferma che Dio gli ha dato “il Nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Filippesi 2,9). Pronunciare il Nome di Gesù con fede significa partecipare alla sua presenza e alla sua potenza salvifica. Di conseguenza, il secondo comandamento trova in Cristo il suo compimento: non solo ci è proibito profanare il Nome divino, ma siamo chiamati a invocarlo con amore, come figli che confidano nel Padre.
Applicazioni spirituali e morali
Oltre alla bestemmia esplicita, il comandamento vieta ogni forma di abuso del sacro: i giuramenti falsi, le promesse fatte a Dio e non mantenute, l’uso superstizioso del Nome divino o delle parole sacre. Il Catechismo (CCC 2149) afferma che bestemmiare è “un grave peccato”, ma lo è anche “usare il nome di Dio per coprire il crimine o l’ingiustizia”.
Al contrario, il cristiano è chiamato a santificare il Nome di Dio nella sua vita quotidiana, come insegna il Padre nostro: “Sia santificato il tuo Nome”. Ogni parola, ogni giuramento e ogni atto deve riflettere questa santità.
Come scrive san Gregorio di Nissa, “la lingua che pronuncia il Nome di Dio deve essere purificata dal fuoco dell’amore, perché solo la bocca che arde di carità può dire Dio senza offenderlo”.
Conclusione
Il secondo comandamento, lungi dall’essere una semplice norma linguistica, è un invito alla trasparenza del cuore e alla verità della relazione con Dio. Nominare Dio significa riconoscere la sua presenza, la sua santità e la sua sovranità sulla nostra vita. Ogni parola rivolta a Lui deve nascere dal silenzio adorante, dove la lingua tace e il cuore parla.
Come insegnava sant’Ambrogio:
“Non c’è voce più alta di quella che prega in silenzio e non c’è parola più pura di quella che pronuncia il Nome di Dio con amore.”
Il primo comandamento, fondamento di tutta la Legge divina, proclama la signoria assoluta di Dio sull’uomo e sull’intera creazione. Esso non è semplicemente un divieto, ma un invito positivo ad entrare in una relazione viva, esclusiva e amorosa con il Dio vivente, sorgente di ogni bene e di ogni verità.
Dio come principio e fine di tutto
La rivelazione veterotestamentaria presenta il Signore come il Dio unico che libera Israele dalla schiavitù d’Egitto: il comandamento nasce dunque da un’esperienza di alleanza e salvezza. Dio si manifesta non come una divinità distante, ma come Colui che interviene nella storia per amore. Per questo motivo, il riconoscimento del suo primato non è una mera imposizione morale, bensì la risposta di fede e gratitudine a una iniziativa di grazia. Sant’Agostino (De Civitate Dei, X, 6) afferma che “adorare Dio è unirsi a Lui con tutto il cuore”, riconoscendo che ogni bene dell’uomo ha in Lui la sua origine. La fede, allora, non è solo un atto intellettuale, ma un movimento totale dell’essere verso il suo Creatore.
La fede, la speranza e la carità come atti del primo comandamento
La teologia cattolica, in particolare nel Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 2084–2132), insegna che il primo comandamento racchiude in sé le tre virtù teologali:
La fede, che riconosce Dio come unico e veritiero;
La speranza, che si affida alla sua provvidenza e alla sua promessa di salvezza;
La carità, che ama Dio sopra ogni cosa per se stesso.
San Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, II-II, q. 122) sottolinea che la fede senza carità non può realmente osservare questo comandamento, poiché “chi non ama Dio non può evitare di porre qualcosa al suo posto”.
L’idolatria e le sue forme
Il comandamento denuncia ogni forma di idolatria, cioè la sostituzione di Dio con ciò che non è Dio. Gli idoli non sono solo statue di pietra o d’oro, ma tutte le realtà alle quali l’uomo attribuisce un valore assoluto: il potere, il denaro, il successo, la scienza quando si fa autosufficiente, perfino l’ego quando pretende di essere misura del bene e del male.
Origene (Commento all’Esodo) ammonisce che “chiunque pone la propria speranza in ciò che è creato, costruisce un idolo nel proprio cuore”. Così, il peccato d’idolatria non è confinato ai culti pagani, ma si rinnova ogni volta che l’uomo si piega davanti a un “dio minore”.
Il culto in spirito e verità
Con Cristo, il primo comandamento si apre alla pienezza della rivelazione: l’unico Dio è Trinità di Persone, comunione eterna di amore. Adorare Dio “in spirito e verità” (Giovanni 4,24) significa entrare in quella comunione, lasciandosi trasformare dallo Spirito Santo per divenire veri adoratori.
San Basilio il Grande (In Psalmum 33), scrive che “la vera adorazione consiste nel conformare la vita a ciò che si crede”, indicando che il culto autentico non si limita ai riti esteriori, ma include l’intera esistenza vissuta come offerta gradita a Dio.
La libertà dell’uomo davanti a Dio
Il primo comandamento custodisce anche la libertà religiosa dell’uomo. Dio non costringe, ma chiama alla libertà dell’amore. Sant’Ireneo di Lione (Adversus Haereses, IV, 37) osserva che “Dio vuole essere amato liberamente, non imposto come un tiranno, ma accolto come un Padre”. L’osservanza del primo comandamento è dunque il culmine della libertà: l’uomo è veramente libero solo quando riconosce e adora il suo Creatore.
La dimensione cristologica
Nel mistero di Cristo, il primo comandamento trova il suo compimento perfetto. Gesù stesso, tentato nel deserto, risponde al tentatore con le parole del Deuteronomio: “Adorerai il Signore Dio tuo e a Lui solo renderai culto” (Matteo 4,10). In Lui l’uomo vede il volto del Dio unico: adorare il Padre nel Figlio significa riconoscere che non vi è altra via, altra verità, altra vita.
Conclusione
Il primo comandamento è la sorgente e la sintesi di tutti gli altri: esso pone Dio al centro dell’esistenza umana e orienta ogni azione alla comunione con Lui. Come scrive san Gregorio Magno (Homiliae in Evangelia, 30), “tutto ciò che è comandato nella Legge e nei Profeti si compendia nell’amore di Dio”. Riconoscere Dio come unico Signore significa, dunque, vivere nella verità dell’essere, nella libertà dell’amore e nella speranza della visione eterna: là dove l’uomo, finalmente, “vedrà Dio così come Egli è” (1 Giovanni 3,2).
Il tema del sacerdozio femminile rappresenta una delle questioni più delicate e discusse nella teologia contemporanea. Tuttavia, per comprenderne in modo autentico e fedele la posizione della Chiesa cattolica, è necessario risalire alle sue radici bibliche, storiche e teologiche, dove emerge con chiarezza la continuità della Tradizione che riconosce il sacerdozio come ministero riservato agli uomini.
Fondamento biblico
La Sacra Scrittura offre il primo e più solido fondamento della dottrina cattolica sul sacerdozio. Gesù Cristo, durante la sua vita terrena, scelse dodici uomini come apostoli (cfr. Marco 3,13-19). Questa scelta non fu semplicemente il riflesso delle convenzioni culturali del tempo: Gesù si mostrò più volte libero rispetto agli usi della società, dialogando con le donne e riconoscendone la dignità, come accadde con la Samaritana (Giovanni 4,7-29) o con Maria di Betania (Luca 10,38-42). Tuttavia, quando si trattò di costituire il gruppo dei Dodici, a cui affidò la missione di fondamento della Chiesa, Egli scelse solo uomini.
È importante sottolineare che i Vangeli non riportano una “formula di istituzione” esplicita del sacerdozio come sacramento, ma la teologia cattolica, alla luce della Tradizione apostolica, riconosce nell’azione di Cristo l’origine del ministero ordinato. Tale ministero trova il suo compimento nella celebrazione dell’Eucaristia (cfr. Marco 14,22-24; Luca 22,19-20) e nella trasmissione della missione apostolica attraverso l’imposizione delle mani (cfr. Atti 13,2-3; 14,23; 20,28; Tito 1,5; 1 Timoteo 4,14; 5,22; 2 Timoteo 1,6). La comprensione cattolica è il frutto di una lettura unitaria di Scrittura, Tradizione e Magistero.
Gli apostoli, fedeli all’intenzione di Cristo, mantennero questa prassi. Nonostante la presenza di molte donne di grande santità e valore nella Chiesa primitiva — basti pensare a Maria, Madre del Signore, a Maria Maddalena, a Febe e Priscilla — nessuna di esse fu ordinata al ministero sacerdotale. Le prime comunità cristiane conoscevano una varietà di carismi e ministeri, ma la successione apostolica, che fonda il sacerdozio sacramentale, fu trasmessa esclusivamente a uomini mediante l’imposizione delle mani.
La testimonianza della Tradizione e dei Padri
I Padri della Chiesa confermarono questa comprensione: Tertulliano (De Virginibus Velandis, 9), sant’Ippolito di Roma (Traditio Apostolica, cap. 11-15), sant’Epifanio di Salamina (Panarion, 79, 3), san Giovanni Crisostomo (De Sacerdotio, libro II, cap. 2; Omelia IX su 1Timoteo), san Gregorio Nazianzeno (Oratio 37, 6), sant’Agostino (De haeresibus ad Quodvultdeum, 27). Pur riconoscendo l’importanza e la dignità della donna, i Padri ribadirono che il ministero sacerdotale appartiene all’ordine stabilito da Cristo e non può essere alterato dalla volontà umana. È bene notare che molti Padri parlavano dei ruoli femminili nella Chiesa in termini di servizio, insegnamento e carità, senza attribuire loro il sacramento dell’Ordine sacro.
Nei primi secoli, le cosiddette “diaconesse” svolgevano ruoli di servizio, specialmente verso le donne nei battesimi o nelle opere di carità, ma non possedevano un carattere sacramentale né esercitavano funzioni sacerdotali complete. Alcune Chiese orientali conoscevano riti di istituzione delle diaconesse che includevano elementi simili all’ordinazione dei diaconi maschi, ma la Chiesa universale non li ha mai considerati sacramenti dell’Ordine. Il Concilio di Nicea (canone 19, anno 325) e quello di Calcedonia (canone 15, anno 451) confermarono chiaramente la distinzione tra tali figure e i ministri ordinati.
Alcune correnti eterodosse dei primi secoli, come il montanismo, introdussero figure femminili che si attribuivano ruoli sacerdotali o profetici, ma queste pratiche furono sempre giudicate contrarie alla Tradizione apostolica e respinte dalla Chiesa.
Riflessione teologica
Il sacerdozio ministeriale è un sacramento che agisce in persona Christi Capitis, cioè nella persona di Cristo Capo della Chiesa. Poiché Cristo, nella sua incarnazione, si è manifestato come uomo, Egli rappresenta sacramentalmente lo Sposo che dona la vita alla Chiesa, sua Sposa. Il simbolismo non si basa su categorie biologiche o di superiorità, ma su un segno sacramentale: il sacerdote, celebrando i sacramenti e annunciando la Parola, agisce come segno sacramentale di Cristo Sposo nei confronti della Chiesa Sposa.
Questo simbolismo nuziale — presente dall’Antico al Nuovo Testamento (in particolare Efesini 5,25-32; Apocalisse 21,2.9) — non è un elemento accidentale, ma appartiene all’essenza stessa del mistero cristiano. Alterarlo equivarrebbe a modificare la struttura sacramentale voluta da Cristo.
La reciprocità sponsale, lungi dal ridurre la donna a passività, ne manifesta la dimensione ecclesiale e materna, come sottolineano Mulieris dignitatem (1988) e Letter to Women (1995). L’argomento non è quindi sociologico, ma sacramentale. Come ricordava san Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica Ordinatio Sacerdotalis (1994), “la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale”, e questa decisione deve essere tenuta “in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa”.
Aspetto storico ed ecclesiologico
Nella storia della Chiesa non si trova alcuna prova di ordinazione sacerdotale femminile riconosciuta come valida. Le eventuali pratiche marginali o settarie sorte in alcuni contesti locali furono sempre considerate irregolari e contrarie alla Tradizione apostolica.
Il sacerdozio, nella sua dimensione sacramentale, non è un diritto o un privilegio, ma un servizio conferito per grazia divina e secondo la volontà di Cristo. L’esclusione delle donne non implica una loro inferiorità, ma riflette la diversità dei carismi e dei compiti nella Chiesa. Come sottolinea san Paolo (1 Corinzi 12,4-31), l’occhio e la mano hanno funzioni diverse ma entrambe necessarie al corpo. La Chiesa è il corpo di Cristo, e ogni membro è utile e importante secondo la propria funzione. La vocazione femminile, vissuta nella maternità, nella consacrazione o nell’apostolato laicale, costituisce un pilastro insostituibile della vita ecclesiale.
Nel contesto attuale, la riflessione teologica continua a interrogarsi sul modo in cui le donne possano partecipare più pienamente alla missione della Chiesa, specialmente nei ministeri non ordinati e nei processi di discernimento e di governo pastorale, sempre nella fedeltà alla dottrina ricevuta.
La Pontificia Commissione Biblica del 1976
La PCB affermò che la Scrittura da sola non offre una prova decisiva né a favore né contro l’ordinazione femminile. Tuttavia, il documento non ha valore magisteriale vincolante. La successiva dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede Inter Insigniores (15 ottobre 1976) interpretò i risultati della PCB alla luce della Tradizione e concluse che la Chiesa “non si ritiene autorizzata a conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne”. Questa posizione è stata ribadita definitivamente da san Giovanni Paolo II nella Ordinatio Sacerdotalis (1994), con formula che richiede l’assenso definitivo dei fedeli (cfr. Responsum ad dubium della CDF, 1995).
Archeologia e titoli epigrafici
Riguardo alle epigrafi antiche che menzionano “diaconesse”, “presbitere” o “episcope”, gli studi più aggiornati (C. Vagaggini, Les diaconesses dans l’Église ancienne, 1974; A. M. Triacca, Epigrafia cristiana e ministeri, 1992; G. Martimort, Deaconesses: An Historical Study, 1986) mostrano che:
Il termine presbitera designa nella maggior parte dei casi la moglie di un presbitero (es. epigrafe ICUR 2, 5158), non una ministra ordinata.
Episcopa, in alcune iscrizioni (come Marcellina o Theodora), non indica un’ordinazione episcopale, ma un titolo onorifico/relazionale (moglie, madre o benefattrice legata al vescovo) o attestazione di prestigio.
Esiste una minoranza di interpreti che sostiene la lettura “episcopa = donna vescovo” in casi isolati. Tuttavia, nella Chiesa cattolica e in quelle ortodosse non sono mai state ordinate donne presbitere o episcope. Nessuna iscrizione antica (IV–VI secolo) implica che queste donne fossero parte della gerarchia ecclesiastica come presbiteri o vescovi canonici.
Conclusione
La questione del sacerdozio femminile non può essere risolta in termini di uguaglianza sociologica o di diritti, ma deve essere compresa alla luce del mistero della fede e dell’economia sacramentale. La Chiesa non dispone del potere di modificare ciò che Cristo ha istituito: essa è chiamata non a reinventare i sacramenti, ma a custodirli fedelmente.
In un’epoca che tende a confondere ruoli e simboli, la fedeltà della Chiesa alla volontà di Cristo appare come segno profetico di obbedienza e di verità (cfr. Ordinatio Sacerdotalis, 1994, par. 4). La dignità della donna, pienamente riconosciuta e onorata, trova la sua pienezza non nell’assunzione del ministero sacerdotale, ma nella sua vocazione propria, che rispecchia in modo unico la risposta d’amore della Chiesa al suo Sposo divino.
“Dal campo dei Filistei uscì un campione di nome Golia di Gat, alto sei cubiti e un palmo.”
Sei cubiti e un palmo misurano quasi tre metri. Secondo il testo masoretico, Golia era alto quasi tre metri. Quindi un “gigante” in senso letterale. Ma non tutte le antiche versioni bibliche danno la stessa misura. La Settanta riporta quattro cubiti e un palmo, quasi due metri. Così anche il rotolo di Qumran. Invece la Vulgata di san Girolamo si attiene alla stessa misura riportata nel testo masoretico.
Molti biblisti cattolici oggi ritengono che la lettura più antica e coerente sia quella di Qumran e della Settanta: Golia era alto quattro cubiti e un palmo (quasi 2 metri), perché è la versione più antica trovata a Qumran (I secolo d.C.), ed è più realistica, un guerriero filisteo molto alto, ma non un mostro mitico.
L’ipotesi è che nel testo ebraico successivo (masoretico) ci sia stato un errore di trascrizione o una tendenza a “ingigantire” la figura di Golia.
Golia è descritto come “campione” dei Filistei di Gat, una delle cinque città della pentapoli filistea. Gli Anakim, antichi giganti cananei, erano detti presenti anche a Gat (cfr. Giosuè 11,22).
La Chiesa interpreta l’episodio non come un duello mitologico, ma come una rivelazione teologica: Il contrasto tra Davide (piccolo, armato solo della fede) e Golia (grande, armato della forza) rappresenta la vittoria della fede sull’orgoglio umano.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica richiama questo tema: “La fede fiduciosa nella potenza di Dio vince le forze del male che sembrano invincibili” (CCC 2097; 2610).
Per sant’Ambrogio (Esposizione del Vangelo secondo Luca, IV, 56-59; De officiis ministrorum, II, 23, 111-113) e sant’Agostino (Sermo 32, De David et Golia; Enarrationes in Psalmos 118, Sermo 25), Davide prefigura Cristo, che abbatte il “gigante” del male con la fede e la parola (la fionda come la Parola di Dio).
Storicamente: Golia era probabilmente un guerriero molto alto (quasi due metri), appartenente a un popolo di uomini robusti, i Filistei di Gat.
Letterariamente: il testo masoretico accentua la statura per esaltare la sproporzione con Davide.
Teologicamente: la vera “altezza” di Golia è la superbia umana, abbattuta dalla fede di Davide, figura di Cristo.
32 Così diffusero tra gli Israeliti il discredito sulla terra che avevano esplorato, dicendo: “La terra che abbiamo attraversato per esplorarla è una terra che divora i suoi abitanti, e tutta la gente che vi abbiamo visto è di grande statura. 33 Vi abbiamo visto anche i giganti – i figli di Anak, della razza dei giganti – e a noi, e ai loro occhi, parevamo come cavallette.”
Dodici esploratori furono inviati da Mosè per perlustrare la terra promessa (Numeri 13–14). Dieci di loro tornano terrorizzati, mentre solo Caleb e Giosuè confidano nella forza del Signore per conquistare la terra. Il popolo, ascoltando il rapporto negativo, si ribella e rifiuta di entrare in Canaan, provocando l’ira di Dio e il castigo dei quarant’anni nel deserto.
La Chiesa interpreta questo episodio non come un resoconto storico di mostri giganti, ma come un insegnamento di fede. Il testo mette in contrasto la paura e la mancanza di fiducia del popolo, con la fede e l’obbedienza di Caleb e Giosuè. Il centro teologico del racconto è la sfiducia nella promessa di Dio, non la presenza letterale di giganti.
Il termine ebraico “nefilim” (che la Settanta traduce col greco “gigantes”) compare solo due volte nella Bibbia: in Genesi 6,4 e qui. Etimologicamente deriva da una radice ebraica nafal (“cadere”), e può indicare “i caduti”, “i potenti”, o “gli uomini di grande statura e violenza”.
In Numeri, il termine è ripreso in modo iperbolico dagli esploratori, non come una descrizione oggettiva, ma come linguaggio del terrore. L’esegesi cattolica (cfr. Bibbia di Gerusalemme, nota a Numeri 13,33) sottolinea: “Il riferimento ai nefilim serve a esprimere l’impressione di paura degli esploratori. Non si tratta di una realtà storica, ma di un’eco mitologico utilizzato per amplificare il racconto.”
In altre parole, gli esploratori utilizzano un mito antico (i nefilim di Genesi) per descrivere l’invincibilità dei cananei.
Il racconto mostra un meccanismo spirituale: la paura umana deforma la percezione della realtà (“ci vedevamo come cavallette”), e porta alla mancanza di fede nella promessa divina. Per i Padri della Chiesa (es. Origene, sant’Ambrogio), questo brano diventa una parabola della vita spirituale: i “giganti” rappresentano le difficoltà o le passioni che il credente teme, ma che possono essere vinte solo con la fiducia in Dio.
Nel senso allegorico e morale, la terra promessa rappresenta la vita di grazia o il Regno di Dio. I giganti rappresentano le forze del male, le tentazioni o i peccati che sembrano insuperabili. La paura degli esploratori è l’immagine della fede debole che si lascia dominare dai sensi e non dalla fiducia in Dio. San Gregorio Magno scrive:
“Chi teme i giganti non può entrare nella terra della promessa; ma chi confida nel Signore, come Giosuè, già possiede in sé la vittoria.”
Il Catechismo della Chiesa Cattolica, pur non commentando direttamente questo racconto, lo inserisce nel tema della fede come obbedienza:
“La disobbedienza è conseguenza della mancanza di fiducia nella bontà di Dio” (CCC 397).
Numeri 13 diventa così un paradigma del peccato di incredulità: il popolo non entra nella terra promessa perché non si fida della Parola di Dio.
Negli ultimi decenni, la festa di Halloween si è diffusa in tutto il mondo occidentale come fenomeno di massa, spesso legato al divertimento, ai costumi e al commercio. Tuttavia, pochi conoscono le sue origini e, soprattutto, la portata simbolica e spirituale che essa racchiude. Non si tratta soltanto di un “innocuo gioco”, ma di un momento in cui si intrecciano due visioni del mondo: una cristiana, che ricorda i santi e la vittoria di Cristo sulla morte, e un’altra che esalta l’occulto, la paura e la fascinazione per il male.
Origini: dalla vigilia di Ognissanti ai culti pagani
Il termine Halloween deriva da “All Hallows’ Eve”, cioè “Vigilia di Ognissanti”. Nella tradizione cristiana, la solennità di Tutti i Santi (1 Novembre) nasce come celebrazione della comunione dei beati in cielo, testimoni di Gesù Cristo.
Tuttavia, nelle regioni celtiche precristiane, la stessa data era segnata dal Samhain, la festa che segnava la fine dell’estate e l’inizio dell’inverno. Si credeva che in quella notte le anime dei defunti vagassero sulla terra e che il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti si assottigliasse. Con la cristianizzazione dell’Europa, la Chiesa cercò di purificare tali costumi, orientandoli verso il culto dei santi e dei defunti in Cristo.
Come ricorda san Cesario d’Arles in un’omelia del VI secolo, “non si devono temere le ombre della notte, poiché il Signore ha vinto le tenebre”. La festa cristiana nasce quindi come trasfigurazione del senso pagano della morte: non negazione, ma redenzione.
Dalla festa sacra alla caricatura profana
Con il passare dei secoli, soprattutto nel mondo anglosassone, la vigilia di Ognissanti perse progressivamente il suo carattere religioso. Le tradizioni del dolcetto o scherzetto, delle zucche illuminate e dei travestimenti riprendono antichi simboli di protezione contro gli spiriti, ma oggi vengono vissute come gioco o folklore.
Eppure, come ammoniva san Giovanni Paolo II, “ogni simbolo ha un’anima”: travestirsi da demoni o celebrare la paura come intrattenimento non è mai spiritualmente neutro. Ciò che si finge di onorare può lentamente penetrare nella cultura e nel cuore.
La testimonianza degli esorcisti
Il compianto Padre Gabriele Amorth, celebre esorcista della diocesi di Roma, parlava spesso di Halloween come di “una trappola culturale che banalizza il demonio”. Diceva:
“Il diavolo ama essere ignorato, ma ancora di più ama essere scherzosamente evocato. Halloween è la sua festa preferita, perché molti, credendo di giocare, aprono porte spirituali che non sanno poi chiudere.”
Analogamente, Padre José Antonio Fortea, teologo ed esorcista spagnolo, avvertiva:
“Dietro certi rituali apparentemente innocui vi è un’antropologia rovesciata: si esalta la morte, la deformità, la paura, mentre la fede cristiana celebra la vita, la bellezza e la speranza.”
Molti esorcisti contemporanei segnalano un aumento di disturbi spirituali e di pratiche esoteriche nei giovani, spesso avvicinatisi per curiosità proprio durante feste di Halloween o riti di gruppo “per gioco”.
Le voci di chi è tornato alla luce
Numerosi ex stregoni e satanisti convertiti testimoniano che Halloween rappresentava, per loro, una data chiave del calendario occultista. Qualcuno ha dichiarato che “Halloween era per noi la notte più potente dell’anno. Non era una festa: era un rito. Si invocavano entità, si celebrava la morte…”.
Anche l’ex satanista americano Zachary King, dopo la sua conversione al cattolicesimo, ha raccontato come molte sette considerino Halloween “una notte di iniziazione”, in cui si fanno giuramenti o si compiono sacrifici simbolici.
Queste testimonianze mostrano che non tutti vivono Halloween come gioco: in certe frange dell’occultismo, essa resta realmente una “festa delle tenebre”.
Riscoprire la vera vigilia di Ognissanti
La Chiesa propone da secoli una via diversa: la Veglia dei Santi. In molte parrocchie, specialmente in Europa e in America Latina, si organizzano “Holyween” o “Feste della Luce”, dove i bambini si travestono da santi, angeli o figure bibliche, ricordando che la vera gloria è la santità.
In questa prospettiva, il 31 Ottobre non è la notte del terrore, ma la vigilia della vittoria di Cristo. Come scrisse san Paolo:
“Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Romani 12,21).
Conclusione: discernere per non confondere
Il cristiano non è chiamato a fuggire il mondo, ma a trasfigurarlo. Tuttavia, non ogni costume culturale può essere assunto senza discernimento. Halloween, nella sua forma attuale, rappresenta un cortocircuito spirituale: nasce da una festa cristiana, ma ne ribalta il significato.
Celebrarla senza consapevolezza significa alimentare un immaginario dove il male è banalizzato e il sacro è ridicolizzato. Come ricordava Padre Amorth:
“Il demonio non ha bisogno di essere adorato: gli basta essere banalizzato.”
Il cristiano, invece, è chiamato a portare luce dove regna la confusione. E la vera luce — quella che sconfigge la paura, la morte e ogni tenebra — ha un nome: Gesù Cristo, Signore e Re di tutti i santi.
Febe, diaconessa di Cencre (menzionata da san Paolo nella Lettera ai Romani 16,1-2), non aveva ricevuto il sacramento dell’Ordine sacro.
Nel cristianesimo delle origini, il termine “diákonos” significava semplicemente “servitore” e veniva utilizzato sia per uomini che per donne impegnati in servizi di carità o di assistenza nella comunità.
Le diaconesse dei primi secoli non ricevevano l’ordinazione sacramentale come i diaconi maschi; svolgevano invece funzioni di servizio (ad esempio assistere le donne durante il battesimo o visitare le malate), in un contesto culturale che richiedeva una certa separazione dei ruoli.
Febe fu una diaconessa nel senso di servitrice o collaboratrice apostolica, non ordinata con il sacramento dell’Ordine sacro. Paolo utilizza il termine “diaconessa” in senso funzionale, non sacramentale.
Nei secoli III–V, si attesta la presenza di donne chiamate diaconesse, soprattutto in Oriente.
Didascalia Apostolorum (III secolo) dice che le diaconesse aiutano nel battesimo delle donne e nell’assistenza ai malati di sesso femminile.
Costituzioni Apostoliche (IV secolo) dice che la diaconessa non svolge i compiti propri del diacono o del presbitero, ma il suo ministero è limitato all’assistenza delle donne.
I Padri della Chiesa, come san Giovanni Crisostomo, san Gregorio di Nissa e altri, riconoscono le diaconesse come collaboratrici preziose nella carità e nella cura pastorale delle donne; ciononostante, nessuno di loro le considera parte del clero ordinato (es. De Sacerdotio, III, 9).
La Commissione Teologica Internazionale (CTI) nel documento del 2002 “Il diaconato: evoluzione e prospettive” afferma chiaramente:
“Le diaconesse non erano assimilate ai diaconi ordinati e non ricevevano un’ordinazione sacramentale.”
Papa Francesco ha istituito due commissioni di studio (2016 e 2020) per approfondire la questione, ma non è stato trovato consenso teologico né storico sufficiente per introdurre oggi il diaconato femminile sacramentale.
Anche Papa Leone XIV, in un’intervista con la giornalista vaticanista Elise Ann Allen, pubblicata nel libro “León XIV: ciudadano del mundo, misionero del siglo XXI”, ha dichiarato che al momento non ha intenzione di cambiare l’insegnamento della Chiesa sull’argomento.
Febe e le diaconesse antiche furono donne consacrate al servizio della comunità, ma non ordinate come i diaconi maschi.
Nella teologia cattolica il sacramento dell’Ordine sacro (diaconato, presbiterato, episcopato) è riservato agli uomini. Tuttavia, il ruolo di servizio, animazione e ministerialità delle donne nella Chiesa è riconosciuto come essenziale e insostituibile.
L’indulgenza è un dono della misericordia di Dio, amministrato dalla Chiesa come dispensatrice dei beni spirituali meritati da Cristo e dai santi. Essa non cancella il peccato – che richiede sempre il pentimento sincero e il sacramento della Riconciliazione – ma rimuove la pena temporale dovuta per i peccati già perdonati quanto alla colpa.
Il fondamento dell’indulgenza si radica nel mistero della comunione dei santi: la Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, vive unita nella grazia, e i meriti di Cristo e dei suoi membri santificati diventano una sorgente di purificazione per coloro che, ancora pellegrini, cercano la piena riconciliazione con Dio.
Fondamento biblico
Benché il termine “indulgenza” non appaia nella Sacra Scrittura, il suo principio è pienamente biblico.
Nel Vangelo, Cristo affida a Pietro le chiavi del Regno dei cieli, dicendo: “Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Matteo 16,19). Questo potere di legare e sciogliere implica anche la capacità di applicare la remissione delle pene connesse ai peccati.
In 2 Samuele 12,13-14, dopo il peccato di Davide, il profeta Natan annuncia il perdono divino, ma anche la permanenza di una pena temporale (“Il Signore ha perdonato il tuo peccato; tu non morirai. Tuttavia…”).
San Paolo, nella Seconda Lettera ai Corinzi, esercita un’autorità simile, rimettendo una pena ecclesiale “in persona di Cristo” (2 Corinzi 2,6-10).
Questi testi mostrano che la remissione del peccato non sempre esclude la necessità di una purificazione ulteriore, ed è in questa dinamica di giustizia e misericordia che si inserisce l’indulgenza.
Testimonianza dei Padri
I Padri della Chiesa conoscevano bene l’idea di una penitenza ecclesiale che potesse essere mitigata o abbreviata mediante l’intercessione dei santi e la carità della Chiesa.
Tertulliano (De corona militis) e san Cipriano di Cartagine (De mortalitate) parlano del “patrimonium sanctorum”, il tesoro dei santi che intercedono per i peccatori.
Sant’Ambrogio (De poenitentia) afferma che la Chiesa, come madre, “scioglie i vincoli della colpa con la misericordia della penitenza”.
Sant’Agostino (De Civitate Dei, XXI,13) distingue chiaramente tra la pena eterna e quella temporale, riconoscendo che la giustizia divina può essere mitigata attraverso opere di pietà e intercessione.
Sviluppo storico
Nel corso dei secoli, la pratica delle indulgenze si è evoluta come espressione concreta della comunione ecclesiale.
Nei primi secoli, la penitenza pubblica poteva essere abbreviata per mezzo dell’intercessione dei martiri o dei confessori della fede.
Nel Medioevo, la Chiesa ha formulato una dottrina più precisa, culminata nei decreti del Concilio di Trento (Sessione 25), che riafferma il valore delle indulgenze e condanna gli abusi connessi al loro uso improprio.
Il Concilio Vaticano II e la successiva riforma del 1967 (Indulgentiarum Doctrina di San Paolo VI) hanno ribadito che l’indulgenza è un invito alla conversione interiore e alla carità, non una “dispensa” formale dalla santità.
Indulgenze parziali e plenarie
La Chiesa distingue due tipi di indulgenza:
Indulgenza parziale: rimette in parte la pena temporale dovuta ai peccati già perdonati. Essa può essere ottenuta in molte circostanze quotidiane, come la recita devota di una preghiera approvata, la lettura della Scrittura per un certo tempo, o un atto di carità sincera.
Indulgenza plenaria: rimette tutta la pena temporale dovuta ai peccati. Essa può essere lucrata una volta al giorno, alle condizioni stabilite. Tra gli atti che concedono l’indulgenza plenaria vi sono, ad esempio, l’adorazione del Santissimo Sacramento per almeno mezz’ora, la recita del Rosario in famiglia o in Chiesa, la Via Crucis o la lettura della Sacra Scrittura per almeno mezz’ora con spirito devoto.
Condizioni per ottenere l’indulgenza plenaria
Per ottenere validamente l’indulgenza plenaria, la Chiesa richiede:
1. Confessione sacramentale (può essere compiuta entro una settimana prima o dopo l’atto indulgentiato);
2. Comunione eucaristica;
3. Preghiera secondo le intenzioni del Santo Padre;
4. Distacco interiore da ogni peccato, anche veniale.
Se manca la piena disposizione interiore, l’indulgenza diventa parziale.
Dimensione spirituale e pastorale
L’indulgenza non è una “scorciatoia” alla santità, ma un segno della maternità spirituale della Chiesa che accompagna il fedele nel cammino di purificazione. Essa ci ricorda che nessuno si salva da solo: il cammino di redenzione è un’opera di comunione, in cui le grazie di Cristo e dei santi sostengono la debolezza umana.
Ricevere un’indulgenza, quindi, è partecipare attivamente alla misericordia divina, cooperando alla santificazione personale e universale. È anche un atto di carità verso le anime del Purgatorio, alle quali la Chiesa può applicare le indulgenze per alleviare o abbreviare la loro purificazione.
Conclusione
Le indulgenze sono un linguaggio di amore e giustizia: amore, perché rivelano la tenerezza di Dio che continua a purificare; giustizia, perché rispettano la libertà umana e la serietà del peccato. Esse non sostituiscono la conversione, ma la accompagnano, illuminando la via che unisce la penitenza alla gioia del perdono.
Come insegna san Giovanni Paolo II:
“L’indulgenza è il respiro della misericordia che attraversa la Chiesa e raggiunge il cuore dell’uomo penitente.”
Tra le antiche eresie cristologiche e trinitarie del II secolo, una delle più insidiose fu quella del monarchianismo modalista, detta anche patripassianismo. Il suo principale esponente fu Noeto di Smirne, seguito poi da Sabellio, dal quale tale dottrina prese anche il nome di sabellianesimo.
Secondo questa eresia, Dio sarebbe un’unica persona che si manifesterebbe in tre diversi “modi” o “aspetti”: come Padre nella creazione, come Figlio nella redenzione, e come Spirito Santo nella santificazione. Ne derivava che il Padre stesso si sarebbe incarnato e avrebbe patito sulla croce, da cui il termine patripassianismo (“il Padre che soffre”).
Tale concezione nega la distinzione reale delle Persone divine nella Trinità, confondendo le persone in un’unica ipostasi e riducendo la rivelazione trinitaria a una semplice successione di maschere o ruoli divini. Essa fu condannata solennemente dalla Chiesa, la quale, illuminata dallo Spirito Santo, riconobbe e definì la verità rivelata secondo cui in Dio vi è un’unica natura divina in tre Persone realmente distinte: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
La testimonianza della Scrittura
I Vangeli manifestano con chiarezza questa distinzione personale. Nel battesimo di Gesù al Giordano (Matteo 3,16-17; Marco 1,10-11; Luca 3,21-22), appaiono simultaneamente le tre Persone divine:
il Figlio incarnato che riceve il battesimo e prega;
lo Spirito Santo che discende su di Lui in forma corporea come una colomba;
il Padre che fa udire la sua voce dal cielo: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto.”
Non si tratta di un’unica persona che agisce in tre ruoli successivi, ma di tre soggetti distinti che agiscono simultaneamente in comunione perfetta.
Lo stesso si vede nella trasfigurazione sul monte Tabor (Matteo 17,1-8; Marco 9,2-8; Luca 9,28-36):
il Figlio appare trasfigurato nella gloria;
lo Spirito Santo si manifesta nella nube luminosa che avvolge i discepoli;
il Padre parla ancora una volta dal cielo, dicendo: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”
In entrambi gli episodi si rivela il mistero trinitario nella sua struttura relazionale: il Padre che parla, il Figlio che riceve la missione, e lo Spirito che unisce e santifica.
La distinzione delle Persone e l’unità della sostanza
La Sacra Scrittura e la Tradizione insegnano che:
il Figlio è generato dal Padre (Giovanni 1,14.18; 3,16);
lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio (Giovanni 14,26; 15,26; 16,7).
Ora, ciò che è generato non può essere identico alla persona che lo genera, e ciò che procede non può essere la stessa persona da cui procede. Perciò, il Figlio non è il Padre, e lo Spirito Santo non è né il Padre né il Figlio. Tuttavia, in ciascuna Persona sussiste la medesima e unica sostanza divina, non divisa né moltiplicata. Come insegna il Simbolo di Atanasio (Quicumque):
“Altra è la Persona del Padre, altra quella del Figlio, altra quella dello Spirito Santo; ma una sola è la divinità, uguale la gloria, coeterna la maestà.”
La distinzione dunque non è di natura, ma di relazione d’origine: il Padre non procede da alcuno, il Figlio è generato dal Padre, lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio come da un unico principio. Così si salvaguardano sia l’unità divina, sia la reale distinzione personale.
La condanna del modalismo e la fede della Chiesa
La Chiesa, già dai tempi dei Padri apostolici e apologisti, difese con vigore questa fede. Tertulliano, contro i patripassiani, scrisse l’opera Adversus Praxean, affermando:
“Prassea ha fatto due mali: ha cacciato il Paraclito e ha crocifisso il Padre.”
Con questa formula paradossale, egli denunciava l’assurdità del modalismo: se il Padre e il Figlio fossero la stessa persona, si dovrebbe dire che il Padre stesso è morto in croce.
Più tardi, i Concili di Nicea (325) e Costantinopoli (381) formularono con chiarezza dogmatica la dottrina trinitaria: il Figlio è consustanziale (“homoousios”) al Padre, e lo Spirito Santo è “Signore vivificante, e procede dal Padre (e dal Figlio)”.
La rivelazione dell’amore trinitario
Infine, la verità della distinzione delle Persone non è una mera questione speculativa, ma riguarda l’essenza stessa dell’amore divino. Dio è Trinità proprio perché Dio è Amore (1Giovanni 4,8):
il Padre ama il Figlio e gli comunica tutto se stesso;
il Figlio riceve l’amore e lo restituisce al Padre;
lo Spirito Santo è l’Amore stesso che procede da entrambi, vincolo perfetto della comunione eterna.
Se Dio fosse una sola persona che si manifesta in modi diversi, non ci sarebbe in Lui relazione né comunione, e dunque non vi sarebbe amore personale. Il mistero trinitario rivela che Dio è da sempre relazione, dono, comunione perfetta di Persone.
Conclusione
Contro il modalismo, la Chiesa proclama la fede apostolica:
“Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente… e in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio… e nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita.”
Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono tre Persone realmente distinte, ma un solo Dio vero, consustanziali, coeterne, inseparabili nell’essenza e nell’azione.
Così, nella gloria eterna e nella vita della grazia, il cristiano è introdotto nella comunione trinitaria: dal Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo.