Le due versioni della morte di Giuda Iscariota, presenti in Matteo 27,3-10 e in Atti 1,18-19, sembrano contraddirsi tra loro.
Matteo 27,3-10 Dopo aver tradito Gesù, Giuda prova un profondo rimorso e restituisce ai sommi sacerdoti le trenta monete d’argento. Essi rifiutano di riaccettarle, e allora Giuda le getta nel tempio e si impicca. I sacerdoti utilizzano poi quel denaro “impuro” per acquistare un terreno chiamato Campo del Vasaio, destinato alla sepoltura degli stranieri.
Atti 1,18-19 Qui la vicenda appare diversa: Giuda, con il denaro ricevuto per il tradimento, acquista un campo, ma poi cade e si squarcia, e le sue viscere si riversano all’esterno. Quel luogo è chiamato in aramaico Akeldamà, cioè “Campo del Sangue”.
Le due versioni probabilmente derivano da tradizioni orali distinte e riflettono intenti teologici diversi, più che errori storici. Gli autori dei due testi non hanno cercato di armonizzarle perfettamente, ma ciascuno interpreta la vicenda in funzione del proprio messaggio.
Matteo enfatizza il pentimento e la colpa: Giuda riconosce la gravità del suo tradimento, ma il rimorso, senza fede e fiducia nella misericordia divina, conduce alla morte. Il racconto vuole mostrare l’autocondanna del peccatore.
Luca (autore degli Atti) sottolinea invece la punizione divina e la drammaticità della corruzione morale: Giuda non mostra pentimento; la sua morte violenta e simbolica è una manifestazione della giustizia di Dio. La scena del corpo che si squarcia rende visibile la devastazione del peccato.
In sintesi, le due narrazioni non sono incompatibili come tradizioni teologiche: ciascuna enfatizza un aspetto diverso del dramma del tradimento di Giuda, servendo finalità morali e simboliche distinte.
Nei Sinottici (Matteo, Marco, Luca), Gesù muore dopo aver celebrato la Cena pasquale con i discepoli, mentre in Giovanni muore prima della Pasqua ebraica, mentre si stanno uccidendo gli agnelli nel tempio.
Il contrasto tra i Sinottici e Giovanni sulla data della Cena pasquale e della Crocifissione ha stimolato una riflessione profondissima nella tradizione cattolica, nei Padri della Chiesa e nella teologia contemporanea.
Nei Sinottici Gesù celebra la Cena pasquale con i discepoli la sera prima della Crocifissione. Ciò significa che, per Matteo, Marco e Luca, Gesù muore dopo aver mangiato la Pasqua ebraica.
Matteo 26,17-20
“Il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua? … Venuta la sera, si mise a mensa con i Dodici.”
Marco 14,12-18
“Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua? … Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici.”
Luca 22,7-15
“Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la Pasqua… Gesù disse: Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione.”
Per i Sinottici è chiaro che la Cena è la Pasqua ebraica stessa, celebrata prima dell’arresto e della Crocifissione.
Invece Giovanni sposta la Crocifissione prima della Pasqua. Gesù muore mentre si preparano gli agnelli per il sacrificio.
Giovanni 13,1-2
“Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora… durante la cena…”
In Giovanni l’Ultima Cena non è la cena pasquale ma una cena prima della Pasqua.
Giovanni 18,28
“Condussero Gesù da Caifa nel pretorio. Era la mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua.”
Al momento del processo, la Pasqua non è ancora stata mangiata.
Giovanni 19,14
“Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: Ecco il vostro re!”
Il termine “Parasceve” significa “preparazione” o “vigilia”. Quindi Gesù viene condannato prima di consumare la Pasqua, mentre si preparano gli agnelli nel tempio.
La Chiesa riconosce che i Vangeli non sono cronache storiche in senso moderno, ma testimonianze teologiche ispirate. Le differenze non sono errori, ma diversi punti di vista sullo stesso mistero pasquale.
La Chiesa accetta la tradizione sinottica come base liturgica: l’Eucaristia fu istituita nella notte in cui Gesù fu tradito, cioè durante la Cena pasquale (CCC 1329; 1339; 1362–1367). Tuttavia, non nega il valore teologico del racconto giovanneo.
I Sinottici sottolineano che Gesù celebra e compie la Pasqua ebraica, trasformandola nella Nuova Alleanza (Eucaristia).
Giovanni, invece, colloca la morte di Gesù mentre si sacrificano gli agnelli pasquali – simbolismo: Gesù è il vero Agnello di Dio (Giovanni 1,29).
Entrambe le versioni sono vere dal punto di vista teologico: nei Sinottici Gesù istituisce la Nuova Pasqua durante l’Ultima Cena, mentre in Giovanni ne manifesta il significato profondo con la sua morte.
“Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa, fu rapito fino al terzo cielo – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio.”
San Paolo, nella seconda lettera ai Corinzi, difende la sua missione apostolica contro chi metteva in dubbio la sua autorità spirituale. In questo passo (12,2-4), egli fa riferimento a un’esperienza mistica straordinaria, ma lo fa in modo volutamente velato: parla di sé in terza persona (“un uomo in Cristo”), per umiltà e per evitare ogni forma di autoesaltazione.
La sua intenzione non è vantarsi di visioni o rivelazioni, ma sottolineare che l’autenticità del suo apostolato non deriva da esperienze straordinarie, bensì dalla grazia di Dio che si manifesta nella debolezza (cfr. 12,9). Paolo riconosce che le esperienze mistiche, pur sublimi, non sono il fondamento della fede, ma segni gratuiti della sovranità divina.
Il “rapimento” (in greco “harpagē”) indica un’esperienza estatica in cui l’anima viene elevata fuori dalle condizioni ordinarie della percezione sensibile. Paolo non sa dire se si trattò di un’esperienza corporea o solo spirituale — il che mostra l’autenticità della testimonianza: un vero mistico non pretende di spiegare il mistero di ciò che è ineffabile.
Il riferimento al “terzo cielo” è una delle espressioni più dense del linguaggio biblico apocalittico e sapienziale. Nell’Antico e nel Nuovo Testamento, il termine “cielo” (samayim in ebraico, ouranos in greco) ha diversi livelli di significato.
Primo cielo: il cielo atmosferico
È la sfera visibile, dove si trovano le nuvole, il vento, la pioggia e gli uccelli del cielo (cfr. Genesi 1,20). È il “cielo” dell’esperienza quotidiana, quello che l’uomo può vedere e percepire.
Secondo cielo: il cielo stellato
È la dimensione cosmica, sede degli astri, del sole, della luna e delle stelle (cfr. Genesi 1,14-18). Nella mentalità biblica, rappresenta l’ordine superiore della creazione, che testimonia la gloria di Dio (“I cieli narrano la gloria di Dio”, Salmi 19,2).
Terzo cielo: la sfera divina
È il regno invisibile di Dio, la dimora trascendente della Sua presenza, che supera ogni spazio fisico. È chiamato anche “paradiso” (cfr. 2 Corinzi 12,4) o “cielo dei cieli” (cfr. Deuteronomio 10,14; 1 Re 8,27). Qui risiede la pienezza della gloria divina, la comunione perfetta con Dio e con gli angeli e i santi.
In altre parole, il “terzo cielo” non è un luogo geografico, ma una realtà spirituale e mistica: la massima prossimità dell’anima a Dio, dove l’intelletto umano è come immerso nella luce divina.
Nella teologia cattolica, questa espressione viene interpretata in chiave simbolica e mistica, non cosmologica. Paolo parla di un grado altissimo di unione con Dio, un’esperienza di “contemplazione infusa” in cui l’anima è rapita oltre le potenze naturali della mente.
I Padri della Chiesa — come san Giovanni Crisostomo, san Tommaso d’Aquino e san Bonaventura — hanno inteso il “terzo cielo” come la pienezza della conoscenza divina, la visione beatifica anticipata, la rivelazione del mistero di Cristo nella sua totalità.
San Tommaso (cfr. Summa Theologiae, II-II, q.175) afferma che san Paolo fu rapito “al terzo cielo”, cioè alla contemplazione della verità divina, che trascende ogni conoscenza umana, anche profetica. Fu un dono temporaneo, ma così profondo da imprimersi per sempre nel suo spirito.
Il “terzo cielo” è quindi l’esperienza della comunione piena con Dio, prefigurazione della vita eterna. San Paolo ci insegna che non si accede a Dio per merito, ma per grazia, e che l’autentica grandezza spirituale nasce dall’umiltà, e la vera gloria non è nelle visioni, ma nella croce di Cristo.
Il mistero dei giganti rappresenta una delle pagine più enigmatiche dell’Antico Testamento. Citati nel libro della Genesi (6,1-4), essi sembrano collocarsi in un tempo primordiale, al confine tra storia e mito, tra la caduta degli angeli e la corruzione dell’umanità.
La Chiesa, pur non offrendo un’interpretazione dogmatica definitiva sui giganti, ha proposto nel corso dei secoli letture coerenti con la rivelazione cristiana, con la Tradizione e con l’analogia della fede.
Nel libro della Genesi leggiamo:
“Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro delle figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle, e ne presero per mogli quante ne vollero… C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli. Questi sono gli eroi dell’antichità, uomini famosi.” (Genesi 6,1-4)
Il termine “giganti” traduce il greco gigantes (presente nella Settanta), che a sua volta rende l’ebraico nefilim — parola derivante dal verbo nafal, “cadere”, e traducibile quindi come “i caduti” o “coloro che fanno cadere”.
L’ambivalenza di questi termini ha dato origine a molteplici interpretazioni: esseri decaduti, figli di angeli ribelli o, più semplicemente, uomini potenti e violenti.
Nella letteratura giudaica precristiana – come nel Libro di Enoch e nei Giubilei – i “figli di Dio” sono spesso intesi come angeli che, attratti dalle donne umane, generarono una stirpe ibrida di giganti corrotti. Sebbene questa tradizione non sia canonica per il cristianesimo, essa influenzò diversi autori dei primi secoli. Tuttavia, la maggior parte dei Padri della Chiesa rifiutò una lettura letterale di tipo angelico-carnale.
San Giustino (Dialogus cum Tryphone Judaeo, cap. 79), sant’Ireneo (Adversus haereses, IV, 36,4) e Tertulliano (De cultu feminarum, I,2) non esclusero del tutto l’ipotesi di un’interferenza angelica, ma la interpretarono come una tentazione demoniaca, non come un’unione fisica. Il “principe di questo mondo” (Giovanni 12,31) può generare mostri morali – uomini corrotti e violenti – ma non mostri biologici.
Sant’Agostino (De Civitate Dei, XV, 23) interpreta invece i “figli di Dio” come i discendenti di Set, la linea dei giusti che invocava il nome del Signore (Genesi 4,26), e le “figlie degli uomini” come la discendenza di Caino, la linea degli empi.
L’appellativo “figli di Dio” può infatti essere attribuito sia agli angeli (Giobbe 1,6; 2,1; 38,7; Salmi 29,1; 89,7) sia agli uomini (Deuteronomio 14,1; Osea 1,10; Sapienza 2,13ss; Matteo 5,9; Giovanni 1,12; Romani 8,14; Galati 3,26).
Secondo sant’Agostino, il peccato non fu una mescolanza biologica, ma spirituale e morale: i giusti, attratti dalla bellezza esteriore e dai piaceri terreni, si lasciarono corrompere, sposando donne empiamente e cedendo alle seduzioni del mondo. Questo “mescolarsi spirituale” rappresenta, per il vescovo di Ippona, la decadenza della linea fedele e la corruzione generale dell’umanità che precede il Diluvio.
I giganti, dunque, non sono mostri fisici, ma simboli della degenerazione morale del mondo, emblemi di superbia e violenza.
Nella visione della Chiesa, ogni evento prediluviano ha un valore tipologico, cioè prefigura la storia della salvezza. I giganti rappresentano il frutto della corruzione originata dal peccato, l’effetto del rifiuto dell’ordine divino. Sono l’immagine dell’umanità che, volendo “innalzarsi” con orgoglio, finisce in realtà per cadere più in basso.
Sono giganti solo in apparenza, ma interiormente “caduti”. Nel linguaggio teologico, il “gigante” è colui che si erge contro Dio: simbolo del peccato di superbia. Così Golia, nell’episodio davidico, rappresenta la forza mondana che confida in sé stessa e non nel Signore.
I giganti, pertanto, non costituiscono una razza fisica, ma una figura spirituale della ribellione collettiva, la stessa che condurrà alla necessità del Diluvio, cioè della purificazione universale.
Il Magistero non ha mai sancito dogmaticamente la natura dei giganti; tuttavia, nei commentari biblici ufficiali e nei documenti della Pontificia Commissione Biblica, si riconosce la legittimità dell’interpretazione simbolico-morale, conforme alla fede.
Sono invece respinte le letture mitologiche o esoteriche, poiché incompatibili con la dottrina sugli angeli: essi sono puri spiriti, non possiedono corpo e non possono procreare.
I giganti, dunque, non devono essere intesi come ibridi tra uomini e angeli, ma come uomini corrotti e violenti, simbolo del peccato diffuso. La loro “grandezza” rappresenta la superbia umana, mentre la loro “caduta” manifesta la giusta conseguenza del peccato.
Il mistero dei giganti rimane una soglia tra il visibile e l’invisibile. La Chiesa non lo chiude nel mito, ma lo illumina con la luce della Rivelazione: ogni racconto di potenza umana senza Dio diventa parabola della caduta.
Il cristiano non deve temere i giganti esterni, ma quelli interiori: la superbia, la violenza, la ribellione al Creatore. Solo Cristo, vero Dio e vero Uomo, vince i giganti del cuore e restituisce all’uomo la sua autentica misura divina:
“Il Signore abbatte i superbi e innalza gli umili” (Luca 1,52).
La figura della Santa Vergine Maria occupa un posto unico e irripetibile nel mistero della salvezza. Tra i molteplici titoli che la Chiesa e la pietà dei fedeli le hanno attribuito nei secoli, quello di Corredentrice emerge come espressione di un profondo riconoscimento del suo ruolo singolare nell’opera redentrice di Cristo. Non si tratta di porre Maria sullo stesso piano del Redentore, ma di riconoscere la sua partecipazione reale, materna e subordinata al mistero della Redenzione.
Radici bibliche
Le basi di questo titolo affondano nella Sacra Scrittura. Nel protovangelo (Genesi 3,15), Dio annuncia che la Donna e la sua discendenza schiacceranno la testa del serpente: già qui si intravede la cooperazione della Madre del Redentore nell’opera salvifica.
Nel Nuovo Testamento, Maria è presentata come la “nuova Eva”. Al “sì” disobbediente di Eva corrisponde il “sì” obbediente di Maria: “Ecce ancilla Domini: fiat mihi secundum verbum tuum” (Luca 1,38). In quel momento, con la sua adesione libera e piena al disegno divino, Maria diviene lo strumento mediante il quale il Verbo si incarna e, così, ha inizio il processo stesso della Redenzione.
Ai piedi della Croce (Giovanni 19,25-27), Maria partecipa in modo unico alla Passione del Figlio: il suo dolore non è solo umano, ma spirituale e redentivo. Ella offre il Figlio al Padre, unendosi al sacrificio di Cristo in un atto di perfetta comunione d’amore. È qui che la tradizione cristiana riconosce in lei la Donna associata al Redentore.
Sviluppo storico e dottrinale
Fin dai primi secoli, i Padri della Chiesa hanno intuito questa dimensione cooperativa di Maria.
Sant’Ireneo di Lione (Adversus haereses, III, 22, 4) scrive che: “Eva, disobbedendo, divenne causa di morte per sé e per tutto il genere umano, mentre Maria, obbedendo, divenne causa di salvezza per sé e per tutto il genere umano”.
Sant’Efrem il Siro (IV Sermone sulla Madonna) la chiama “mediatrice del mondo intero” e “dispensatrice di doni”.
San Giustino Martire (Dialogus cum Tryphone Judaeo, cap. 100) e Tertulliano (De carne Christi, 17) sottolineano il parallelismo Eva–Maria.
Nel Medioevo, la teologia mariana si approfondisce ulteriormente. San Bernardo di Chiaravalle (Sermo in Nativitate Beatae Mariae Virginis), san Bonaventura (Sermo II de Annuntiatione BMV; Speculum BMV, cap. VIII; Collationes de donis Spiritus Sancti, VI, 15) e Duns Scoto (Ordinatio III, dist. 3, q. 1; Reportata Parisiensia III, d. 3, q. 1) contemplano in Maria la “cooperante” del Figlio nella Redenzione.
Il titolo di Corredentrice appare più chiaramente a partire dal XV secolo, diffondendosi nella predicazione e nella pietà popolare. I Papi moderni, pur non avendolo mai definito dogmaticamente, ne hanno riconosciuto il valore teologico in forma prudente e rispettosa:
Leone XIII (Supremi apostolatus, n. 3): “La Vergine Immacolata, prescelta ad essere Madre di Dio, è per ciò stesso fatta corredentrice del genere umano”.
San Pio X (Ad diem illum laetissimum, n. 14): “Maria divenne legittimamente degna di riparare l’umana rovina e perciò di dispensare tutti i tesori che Gesù procurò a noi con la Sua morte e il Suo sangue”.
Benedetto XV (Lettera apostolica Inter Sodalicia): Maria, “in comunione con il Figlio sofferente e agonizzante, sopportò il dolore e quasi la morte; abdicò ai diritti di madre sul Figlio per ottenere la salvezza degli uomini; e, per quanto dipendeva da Lei, immolò il suo Figlio per placare la giustizia divina. Così si può giustamente affermare che con Cristo Ella ha redento il genere umano”.
Pio XI (Discorso ai pellegrini di Vicenza, 30 novembre 1933): “Maria prese parte all’opera della Redenzione con Gesù Cristo”.
Pio XII (Enciclica Mystici Corporis Christi): “Dio ha voluto associare indissolubilmente la Beatissima Vergine Maria a Cristo nel compimento dell’opera dell’umana Redenzione”.
Anche San Giovanni Paolo II, pur non definendo dogmaticamente il titolo di “Corredentrice”, ne approvò l’uso teologico per esprimere la partecipazione materna di Maria all’opera redentrice di Cristo, sempre in modo subordinato e dipendente da Lui:
8 settembre 1982, Altotting: Maria è “Corredentrice dell’umanità”, poiché “la sua partecipazione al sacrificio redentore di Cristo è stata unica e irripetibile”.
31 gennaio 1985, discorso ai malati: “Maria fu spiritualmente presente con il Figlio suo sul Golgota, associata come Madre alla sua opera di redenzione”.
6 febbraio 1985, udienza generale: “Maria, unita al Figlio, cooperò in modo del tutto singolare all’opera della Redenzione”.
15 settembre 1985, festa dell’Addolorata: la chiama “Corredentrice” e “Madre di tutti noi sotto la Croce”.
Situazione attuale
Negli anni ’90, un gruppo di teologi e fedeli chiese a Giovanni Paolo II di definire un nuovo dogma su Maria come Corredentrice, Mediatrice e Avvocata. Il Papa, pur valorizzando questi titoli nel senso approvato dal Concilio Vaticano II, non accolse la richiesta.
Benedetto XVI (Udienza generale, 12 settembre 2012) afferma che “Maria, totalmente unita al Figlio, si è affidata alla volontà di Dio, partecipando in modo singolare alla sua opera salvifica, ma sempre come creatura redenta”.
Papa Francesco (Udienza generale, 24 marzo 2021) ribadisce che “Maria è Madre, non dea, non Corredentrice; solo Cristo è l’unico Redentore”. Ciò non nega la sua mediazione intercessoria, ma chiarisce che non si deve interpretare Maria in senso paritario con Cristo.
Infine, il 4 novembre 2025, il Dicastero per la Dottrina della Fede ha pubblicato la Nota dottrinale Mater Populi Fidelis (approvata il 7 ottobre 2025 da Papa Leone XIV), che ribadisce come Maria sia “Madre del popolo fedele”, ma scarta l’uso del titolo “Corredentrice” perché “tale espressione rischia di oscurare l’unica mediazione salvifica di Cristo e può generare confusione teologica”.
Significato teologico
Il titolo di Corredentrice non implica alcuna uguaglianza con Cristo, ma una partecipazione subordinata e dipendente. Solo Cristo è il Redentore, poiché solo la sua morte e risurrezione possiedono valore infinito e universale. Tuttavia, Maria ha cooperato per grazia a quell’opera unica, offrendo la sua libertà, la sua fede e il suo dolore.
La corredenzione mariana si articola in tre momenti principali:
1. Cooperazione all’Incarnazione, accogliendo il Verbo con il suo “fiat”.
2. Cooperazione alla vita e missione di Cristo, sostenendo il Figlio nella sua opera salvifica.
3. Cooperazione alla Passione e alla Croce, offrendo il Figlio e sé stessa al Padre per la salvezza dell’umanità.
In questo senso, la Corredentrice è anche Mediatrice di tutte le grazie, poiché tutto ciò che Cristo ci dona ci giunge, per misteriosa volontà divina, attraverso la maternità spirituale di Maria.
Attualità spirituale
Contemplare Maria come Corredentrice non è soltanto un esercizio teologico, ma una chiamata alla vita cristiana. Maria mostra che la salvezza non è un dono passivamente ricevuto, ma una realtà che richiede la nostra collaborazione libera e amorosa. Come lei, ogni credente è chiamato a partecipare, in modo personale e comunitario, all’opera redentrice di Cristo, unendo le proprie sofferenze, fatiche e preghiere al sacrificio del Figlio.
La Corredentrice invita a guardare questa verità come parte integrante di una mariologia cristocentrica: in Maria tutto conduce a Cristo, e in Cristo tutto trova il proprio compimento.
Maria Corredentrice è dunque l’icona vivente della cooperazione tra grazia e libertà, tra amore umano e amore divino. Nella sua persona, l’umanità si apre senza riserve all’azione salvifica di Dio, e la Redenzione — che ha in Cristo la sua fonte — trova in Maria il suo grembo accogliente e materno.
Preghiera di riparazione alla Beata Vergine Maria (Corredentrice)
Dagli Acta Apostolicae Sedis, 1914, p. 108 s.
Vergine benedetta, Madre di Dio, volgete benigna lo sguardo dal cielo, ove sedete regina, su questo misero peccatore, vostro servo.
Esso, benché consapevole della sua indegnità, a risarcimento delle offese a voi fatte da lingue empie e blasfeme, dall’intimo del suo cuore vi benedice ed esalta come la più pura, la più bella e la più santa di tutte le creature.
Benedice il vostro santo nome, benedice le vostre sublimi prerogative di vera Madre di Dio, sempre Vergine, concepita senza macchia di peccato, di Corredentrice del genere umano.
Benedice l’eterno Padre, che vi scelse in modo particolare per Figlia; benedice il Verbo incarnato, che, vestendosi dell’umana natura nel vostro purissimo seno, vi fece sua Madre; benedice il divino Spirito, che vi volle sua Sposa.
Benedice, esalta e ringrazia la Trinità augusta, che vi prescelse e predilesse tanto da innalzarvi su tutte le creature alla più sublime altezza.
O Vergine santa e misericordiosa, impetrate il ravvedimento ai vostri offensori e gradite questo piccolo ossequio dal vostro servo, ottenendo anche a lui, dal vostro divin Figlio, il perdono dei propri peccati.
Amen.
Concessione d’indulgenza
Il nostro Santissimo Signore Papa Pio X, nella consueta udienza concessa al Reverendo Assessore del Santo Uffizio, si è benignamente degnato di concedere che i fedeli cristiani, i quali, almeno col cuore contrito e devotamente, reciteranno la suddetta orazione, possano lucrare un’indulgenza di cento giorni, applicabile anche ai defunti, ogni volta che la reciteranno. Questo decreto rimane valido in perpetuo, senza necessità di ulteriori atti o pubblicazioni, nonostante qualunque disposizione contraria.
Il Paradiso non è un luogo, ma un abbraccio eterno: è Dio stesso che accoglie in sé ogni creatura redenta. È il cuore di Dio spalancato, dove ogni sete trova riposo e ogni desiderio si trasfigura in lode. Non si entra in Paradiso attraversando uno spazio, ma aprendosi a un Amore che non conosce confini. È l’incontro definitivo tra la fragilità umana e la pienezza divina, dove l’uomo non perde sé stesso, ma finalmente si ritrova — puro, integro, vero — nello sguardo del suo Creatore.
Nel Paradiso, tutto ciò che era frammento diviene unità, tutto ciò che era attesa si compie. Il tempo cede il passo all’eterno presente, e l’anima, liberata da ogni ombra, contempla Dio così come Egli è: non più attraverso segni o parole, ma nella luce immediata della Sua Presenza. È una visione che non stanca, una conoscenza che non finisce, un amore che non diminuisce. Ogni istante è pienezza, e ogni respiro è canto.
Il Paradiso è la comunione perfetta: Dio in noi e noi in Dio. È il “noi” redento, la moltitudine che diventa armonia, la diversità che si fa sinfonia nell’unico Amore. I santi non sono isolati nella loro beatitudine, ma uniti come membra di un solo corpo, irradiando l’uno all’altro la luce che proviene dal volto di Cristo. In questa comunione, ogni volto umano diventa icona del divino, e ogni nome pronunciato risuona come una nota nella lode eterna.
Il corpo stesso, risorto e trasfigurato, partecipa di questa gloria. Non più segnato dal limite, ma reso trasparente alla luce dello Spirito, diventa strumento di comunione, linguaggio d’amore, eco visibile della grazia. Non vi sarà più dolore né corruzione, perché la materia stessa sarà penetrata dalla vita di Dio: la creazione intera, liberata dal gemito, entrerà nella libertà gloriosa dei figli di Dio.
Ma la gloria dei beati non è solo contemplazione: è partecipazione. I santi regnano con Cristo non come spettatori, ma come cuori uniti al suo, che amano, lodano e intercedono. La loro gioia non si chiude in sé, ma trabocca sulla terra, come luce che guida i viandanti ancora in cammino. Il Paradiso è quindi dinamismo d’amore: un continuo donarsi, un eterno fluire tra Dio e le sue creature, dove tutto è movimento e pace, fuoco e quiete, silenzio e canto.
Là, ogni ferita diventa sorgente di luce, ogni croce fiorisce in gloria. Le lacrime che in terra bagnarono il volto dei giusti diverranno perle nella corona della misericordia. Nulla andrà perduto: ogni atto d’amore, anche il più piccolo, troverà il suo eco nell’eternità, perché tutto ciò che è stato offerto per amore è già parte del Regno che non tramonta.
E tuttavia, il Paradiso non è solo una meta futura: è una realtà che comincia ora, nel cuore che crede e ama. Ogni volta che l’uomo perdona, accoglie, serve, una scheggia di eternità entra nel tempo. Il Paradiso cresce in noi come seme invisibile, e un giorno, quando il velo cadrà, scopriremo che non andavamo verso un luogo sconosciuto, ma verso il volto di Colui che da sempre ci attendeva.
Allora comprenderemo che tutta la storia era un ritorno: un lento risveglio al Mistero che ci abita, un viaggio verso la nostra origine, che è Dio stesso. E nella Sua luce, senza più ombre né timori, diremo con stupore: “Ecco, questo è il Paradiso, ed era già cominciato nel cuore di chi ama.”
La Chiesa ha a lungo negato e proibito la pratica della cremazione, ma la sua posizione è cambiata nel corso del XX secolo.
Posizione tradizionale (fino al XX secolo)
Per molti secoli, la Chiesa proibì la cremazione dei corpi dei fedeli. Le ragioni principali erano:
Rispetto per il corpo come tempio dello Spirito Santo.
Fede nella risurrezione dei corpi: sebbene la cremazione non renda impossibile la risurrezione, veniva vista come un gesto simbolico contrario a essa.
Contrapposizione a movimenti anticristiani: nell’Ottocento alcuni gruppi laicisti e massonici promuovevano la cremazione proprio come segno di rifiuto della fede cristiana nella risurrezione, e la Chiesa reagì vietandola.
Il Codice di Diritto Canonico del 1917 (canone 1203 §2) stabiliva infatti che chi chiedeva la cremazione non poteva ricevere esequie cristiane.
Il cambiamento (XX secolo)
Nel 1963, con l’Istruzione Piam et constantem della Congregazione del Sant’Uffizio (ora Dottrina della Fede), la Chiesa revocò il divieto generale. Da allora:
La cremazione è permessa, purché non sia scelta per motivi contrari alla fede cristiana (cioè per negare la risurrezione o l’immortalità dell’anima).
Si preferisce comunque la sepoltura tradizionale del corpo, come imitazione della sepoltura di Cristo.
Norme attuali
Il Codice di Diritto Canonico del 1983 (canone 1176 §3) recita:
“La Chiesa raccomanda vivamente che si conservi la pia consuetudine di seppellire i corpi dei defunti; tuttavia, non proibisce la cremazione, a meno che non sia stata scelta per ragioni contrarie alla dottrina cristiana.”
Nel 2016, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha pubblicato l’Istruzione Ad resurgendum cum Christo, che:
Conferma la liceità della cremazione.
Vieta la dispersione delle ceneri, la loro conservazione in casa o la loro divisione tra familiari.
Richiede che le ceneri siano conservate in un luogo sacro (cimitero o area benedetta).
Alcuni passaggi centrali de Istruzione Ad resurgendum cum Christo:
“La Chiesa continua a preferire la sepoltura dei corpi, poiché manifesta una stima maggiore verso i defunti” (n. 3).
“La cremazione non è di per sé contraria alla fede cristiana, se non è stata scelta per ragioni contrarie alla dottrina cristiana” (n. 4).
“Le ceneri del defunto devono essere conservate in un luogo sacro, cioè nel cimitero o, in certi casi, in una chiesa o area appositamente dedicata” (n. 5).
“Per evitare ogni tipo di equivoco panteista, naturalista o nichilista, non è permessa la dispersione delle ceneri nell’aria, in terra o in acqua, né la loro conversione in ricordi commemorativi, né la loro divisione tra i familiari” (n. 7).
Cosa penso di questa pratica
La cremazione, pur essendo oggi ammessa dalla Chiesa in determinate circostanze, continua a lasciarmi profondamente perplesso. Capisco le ragioni pratiche ed economiche che possono spingere una persona a sceglierla, ma credo che, dal punto di vista spirituale e simbolico, essa impoverisca il significato cristiano della morte e della speranza nella risurrezione.
Il corpo non è soltanto un involucro destinato a dissolversi: è parte integrante della nostra identità di persone create da Dio. Il corpo ha accolto i sacramenti, ha amato, a sofferto, a servito. Per questo, la Chiesa parla del corpo come “tempio dello Spirito Santo”. Distruggerlo volontariamente, riducendolo in cenere, mi sembra un gesto che interrompe questo legame di rispetto e di custodia.
La sepoltura, invece, conserva un senso di attesa e di speranza. Il corpo deposto nella terra richiama il seme che muore per poi dare vita nuova, come dice il Vangelo (Giovanni 12,24). La tomba diventa un luogo di preghiera, di memoria, di incontro con la promessa della risurrezione. In essa il credente riposa, non scompare.
La cremazione, al contrario, rischia di esprimere una visione troppo moderna della morte: una volontà di cancellare rapidamente ogni traccia del corpo, quasi a negare la realtà del morire o a ridurre l’essere umano a pura materia. E quando si scelgono gesti come la dispersione delle ceneri o la loro trasformazione in oggetti commemorativi, si perde il senso del sacro, si smarrisce la prospettiva della vita eterna.
Per questo, pur rispettando le scelte personali e la libertà di coscienza, io sento di non poter condividere la pratica della cremazione. Preferisco la via semplice e antica della sepoltura, che custodisce il corpo nel silenzio della terra, in attesa del giorno in cui — come Cristo — anche noi risorgeremo alla vita nuova.
La parola “Tradizione” (dal latino “traditio”, “consegna”, “trasmissione”) indica il passaggio di un insegnamento da una generazione all’altra. Nella Chiesa, la Tradizione non è semplicemente un insieme di usanze antiche, ma la trasmissione viva della fede apostolica, cioè di ciò che gli apostoli hanno ricevuto da Cristo e dallo Spirito Santo, e che hanno poi trasmesso alla Chiesa.
Origine evangelica e apostolica
Gesù come fonte
Tutto nasce da Gesù Cristo, che è la Rivelazione piena di Dio. Durante la sua vita, Gesù predicò il Regno di Dio, istituì i sacramenti (in particolare l’Eucaristia e il Battesimo), scelse e formò gli apostoli come suoi testimoni e continuatori.
Gli apostoli come primi trasmettitori
Dopo la Risurrezione e la Pentecoste, gli apostoli annunciarono oralmente ciò che avevano visto e udito (la cosiddetta Tradizione orale), e scrissero alcuni elementi di questa predicazione, dando origine ai Vangeli e agli altri scritti del Nuovo Testamento. Quindi, la Rivelazione divina è stata trasmessa prima oralmente, e solo in seguito anche per iscritto.
Dalla predicazione apostolica alla Tradizione della Chiesa
Dopo la morte degli Apostoli, la loro predicazione non si è spenta. Le comunità cristiane, guidate dai vescovi (successori degli apostoli), hanno continuato a proclamare la Parola di Dio, celebrare la liturgia, vivere la fede ricevuta dagli apostoli. In questo modo, la Tradizione è rimasta viva nella vita della Chiesa: non come un “museo del passato”, ma come una realtà vivente guidata dallo Spirito Santo.
Tradizione e Sacra Scrittura
Il Concilio Vaticano II, nella Dei Verbum (n. 9), insegna che “la Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un unico sacro deposito della Parola di Dio, affidato alla Chiesa”.
La Scrittura è la Parola di Dio scritta sotto ispirazione dello Spirito Santo. La Tradizione è la stessa Parola di Dio, trasmessa oralmente e vissuta nella Chiesa. Entrambe vengono interpretate autenticamente dal Magistero della Chiesa (cioè dal Papa e dal collegio dei vescovi in comunione con lui).
Il ruolo dello Spirito Santo
La Tradizione non è solo una “memoria” del passato, è attiva, perché lo Spirito Santo continua a guidare la Chiesa nell’approfondire la comprensione della fede, nel discernere la verità, e nel conservare l’unità della dottrina. Come dice la Dei Verbum (n. 8): “La Tradizione che viene dagli apostoli progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo.”
Manifestazioni concrete della Tradizione
La Tradizione apostolica si esprime in vari modi:
la liturgia (specialmente l’Eucaristia);
i simboli di fede (come il Credo);
gli insegnamenti dei Padri della Chiesa;
le decisioni dei Concili;
la vita dei santi e il sensus fidei del Popolo di Dio.
Sviluppo storico della Tradizione nella Chiesa
La Tradizione non è un libro chiuso, ma un fiume che scorre nella storia: nasce dalla predicazione apostolica e continua a vivere nel tempo, sempre sotto la guida dello Spirito Santo.
Vediamola in tappe:
I secolo: la Tradizione apostolica
Gli apostoli trasmettono ciò che hanno ricevuto da Cristo: parole, gesti, dottrina, sacramenti, esempio di vita.
Non tutto viene scritto: molte cose rimangono trasmesse oralmente (cfr. 2 Tessalonicesi 2,15: “State saldi e mantenete le tradizioni che avete appreso sia per parola sia per lettera da noi.”). Le prime comunità vivono di questa Tradizione viva, celebrando l’Eucaristia e il Battesimo già secondo una forma riconoscibile.
II-III secolo: i Padri apostolici e la Tradizione viva
I Padri apostolici (come san Clemente Romano, sant’Ignazio di Antiochia, san Policarpo di Smirne) custodiscono e trasmettono la fede ricevuta dagli Apostoli. Si formano i Simboli di fede (ad esempio, il “Credo”), che riassumono la dottrina apostolica. Le Scritture vengono lette nella Chiesa e alla luce della Tradizione: il canone biblico nasce gradualmente, riconoscendo quali testi sono divinamente ispirati.
IV-V secolo: consolidamento dottrinale
Con il riconoscimento ufficiale del cristianesimo (Editto di Milano, 313), la Chiesa può riflettere più profondamente sulla fede.
I Concili ecumenici (Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia…) definiscono le grandi verità cristologiche e trinitarie, attingendo alla Tradizione apostolica per difendere la fede contro le eresie. I Padri della Chiesa (sant’Agostino, sant’Atanasio, san Basilio, san Gregorio, ecc.) interpretano la Scrittura alla luce della Tradizione.
Medioevo: sviluppo teologico e liturgico
La Tradizione si arricchisce di una riflessione teologica profonda (es. san Tommaso d’Aquino) e di una vita liturgica strutturata. Le università e le scuole monastiche trasmettono la fede attraverso lo studio, la predicazione e la liturgia. Si consolidano anche molte tradizioni ecclesiastiche locali, come riti, discipline e devozioni.
Riforma e Concilio di Trento
La Riforma protestante (XVI secolo) contesta l’autorità della Tradizione, affermando il principio del “Sola Scriptura” (“solo la Scrittura”). Il Concilio di Trento (1545–1563) risponde chiarendo che la Rivelazione divina è contenuta sia nella Scrittura che nella Tradizione, e che la Chiesa è custode e interprete di entrambe.
Età contemporanea: il Concilio Vaticano II
La Costituzione dogmatica Dei Verbum (1965) offre una sintesi luminosa: “La sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un unico sacro deposito della Parola di Dio, affidato alla Chiesa”. Sottolinea che la Tradizione progredisce nella comprensione della fede, grazie all’azione dello Spirito Santo, alla vita dei credenti e al Magistero.
Tradizione apostolica e tradizioni ecclesiastiche
Non tutto ciò che è “tradizione” nella Chiesa ha lo stesso peso. La Chiesa distingue tra Tradizione apostolica e tradizioni ecclesiastiche.
La Tradizione apostolica è ciò che proviene direttamente dagli apostoli, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Contiene gli elementi essenziali della fede e dei sacramenti, che appartengono al nucleo della Rivelazione. Non può essere modificata né abolita, perché è parte della Parola di Dio. Alcuni esempi sono la Trinità, l’Incarnazione, la struttura sacramentale della Chiesa, l’Eucaristia, il ministero apostolico.
Le tradizioni ecclesiastiche sono invece forme storiche, disciplinari o liturgiche con cui la Chiesa, in tempi e luoghi diversi, ha espresso la stessa fede. Non fanno parte della Rivelazione divina, ma sono modi concreti di viverla. Possono evolversi o cambiare nel tempo, sotto il discernimento del Magistero. Alcuni esempi sono il celibato ecclesiastico (disciplina, non dogma), le lingue liturgiche (latino, greco, lingue moderne), le feste e le devozioni popolari (rosario, processioni, ecc.), le norme canoniche che cambiano nel tempo.
In conclusione:
La Tradizione è la vita stessa della Chiesa, animata dallo Spirito Santo, che custodisce e trasmette la fede apostolica nel corso dei secoli. All’interno di essa, convivono una Tradizione viva e divina, che non cambia, e molte tradizioni ecclesiastiche, che possono cambiare pur restando al servizio della stessa fede.
Secondo la Tradizione della Chiesa cattolica, i genitori della Beata Vergine Maria sono Anna e Gioacchino.
Questa informazione non si trova nei Vangeli canonici, ma proviene da testi apocrifi antichi, in particolare dal Protovangelo di Giacomo (II secolo), che racconta la nascita miracolosa di Maria da una coppia di sposi anziani e pii che non riuscivano ad avere figli.
Entrambi sono venerati come santi dalla Chiesa cattolica, e la loro memoria liturgica comune è celebrata il 26 luglio.
Non tutta la fede cattolica viene solo dalla Bibbia. Nella Chiesa, la Rivelazione divina è trasmessa attraverso due fonti inseparabili: la Sacra Scrittura e la Sacra Tradizione.
Questo è esplicitamente affermato nella Dei Verbum (n. 9) del Concilio Vaticano II. Ciò significa che alcuni elementi della fede — come i nomi dei genitori di Maria — non vengono dalla Bibbia, ma da una tradizione antica accettata nel tempo dal popolo cristiano e confermata dal Magistero.
Il Protovangelo di Giacomo, pur non essendo ispirato né canonico, contiene antiche tradizioni popolari su Maria e sulla sua famiglia che circolavano già nel II secolo. La Chiesa non lo riconosce come testo sacro, ma non tutto ciò che contiene è considerato falso. Alcuni elementi (come i nomi di Anna e Gioacchino) sono stati accolti nella pietà cristiana perché coerenti con la fede e la devozione mariana, senza contraddire la dottrina.
Nel corso dei secoli, la devozione a sant’Anna e san Gioacchino si è diffusa spontaneamente tra i fedeli, e la Chiesa ha poi ufficialmente approvato e integrato questo culto nel calendario liturgico. Non è quindi un “dogma rivelato”, ma una tradizione venerabile riconosciuta come edificante per la fede.
La Chiesa venera sant’Anna e san Gioacchino non perché i loro nomi siano in un vangelo apocrifo, ma perché la Tradizione viva della Chiesa — che precede e accompagna la Scrittura — ha riconosciuto in loro figure autentiche di santità e modelli di fede.
“Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri, ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo.”
Queste parole di san Pietro, pronunciate al portico di Salomone dopo la guarigione dello storpio, rivelano la profondità del mistero cristologico. L’apostolo chiama Gesù “il servo di Dio”, espressione che, a prima vista, potrebbe sembrare in contrasto con la fede nella divinità di Cristo. Tuttavia, nella luce della Rivelazione, questa formula esprime l’unità del mistero dell’Incarnazione: Gesù è insieme vero Dio e vero uomo.
Gesù “servo di Dio” secondo la sua natura umana
Quando Pietro parla del servo di Dio, egli si riferisce a Cristo nella sua condizione umana. Il Figlio eterno del Padre, assumendo la nostra natura, ha preso la forma di servo:
“Pur essendo nella condizione di Dio, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini” (Filippesi 2,6-7).
Questo abbassamento volontario — la “kenosi” — non diminuisce la divinità del Figlio, ma ne manifesta la potenza nell’amore e nell’obbedienza. Nella sua umanità, Gesù si è fatto il perfetto servo del Signore, prefigurato nei canti del Servo di Isaia (Isaia 42,1-9; 49,1-6; 50,4-9; 52,13–53,12).
Isaia aveva annunciato: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio; ho posto il mio spirito su di lui” (Isaia 42,1).
Pietro, chiamando Gesù «servo di Dio», riconosce in Lui il compimento di questa profezia: colui che, con l’obbedienza fino alla morte, prende su di sé i peccati del mondo e viene glorificato da Dio nella risurrezione.
Gesù “glorificato” come Figlio di Dio
Pietro aggiunge: “Il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù”. La glorificazione, nella teologia giovannea e neotestamentaria, coincide con la risurrezione e l’esaltazione del Cristo alla destra del Padre (Giovanni 12,23; 17,1; Atti 2,33).
Nell’umanità di Gesù, Dio Padre manifesta la sua gloria e riconosce l’obbedienza perfetta del Figlio (Ebrei 5,8-9). Così, il “servo” è glorificato come Signore:
“Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi” (Filippesi 2,9-10).
Gesù, il Servo e l’Autore della vita
Immediatamente dopo, Pietro proclama: “Voi avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti” (Atti 3,15).
Qui la tensione apparente si risolve: il servo è anche l’autore della vita, cioè Dio stesso. Pietro confessa che il Crocifisso è il Signore risorto, lo stesso che dona la vita e la crea (cfr. Giovanni 1,3-4; Colossesi 1,16-17).
La Scrittura è unitaria: colui che, come uomo, serve e obbedisce, è lo stesso che, come Dio, dà la vita. Il servo è dunque Signore, secondo la doppia natura del Cristo una sola Persona divina.
Gesù stesso aveva annunciato: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Giovanni 2,19), testimoniando che la sua risurrezione è opera della potenza divina che Egli possiede in quanto Figlio eterno del Padre.
Testimonianza della Tradizione e dei Padri della Chiesa
La Chiesa ha sempre letto in chiave cristologica il titolo “servo di Dio”.
Sant’Ireneo di Lione afferma: “Il Figlio di Dio si fece servo per ricapitolare in sé la nostra disobbedienza con la sua obbedienza, e così ricondurci al Padre” (Adversus haereses, III,18,7).
Sant’Agostino spiega: “Cristo, come Dio, è uguale al Padre; come uomo, è servo. Il servo non è la natura divina, ma la natura umana assunta” (Enarrationes in Psalmos 39,2).
San Leone Magno ribadisce: “L’umiltà della carne non ha diminuito la maestà del Verbo, ma l’ha esaltata nel mistero della salvezza” (Sermo 28, In Nativitate Domini).
Il Concilio di Calcedonia (451) definisce solennemente che in Cristo vi sono due nature, divina e umana, “senza confusione, senza mutamento, senza divisione e senza separazione”, unite in un’unica Persona divina. Per questo, ciò che si dice di Cristo come “servo” si riferisce alla sua umanità, ma appartiene realmente al Figlio di Dio.
Sintesi teologica
Dunque, chiamando Gesù servo di Dio, Pietro non nega la sua divinità, ma proclama la realtà del suo abbassamento per amore.
Come uomo, Gesù è il servo obbediente che offre se stesso in sacrificio per la redenzione.
Come Dio, è l’autore della vita e colui che risuscita se stesso dai morti.
Nella croce e nella risurrezione, si rivela la piena verità del Figlio: “Il servo umiliato è il Signore glorificato” (cfr. Isaia 52,13).
Conclusione
Pietro, nel proclamare Gesù come “servo” e “autore della vita”, confessa il cuore del mistero cristiano: il Figlio eterno del Padre si è fatto uomo per servire (Marco 10,45), per offrire la vita in riscatto per molti, e nella sua obbedienza ha manifestato la gloria divina.
In Lui si compiono le parole del profeta: “Ecco, il mio servo prospererà, sarà innalzato, esaltato e grandemente glorificato” (Isaia 52,13).
Così, per la fede cattolica, Gesù Cristo è insieme il Servo obbediente e il Signore glorioso, vero Dio e vero uomo, centro dell’economia della salvezza e della glorificazione dell’uomo in Dio.