PREESISTENZA DELL’ANIMA

A cura di Giuseppe Monno

La dottrina della preesistenza dell’anima afferma che l’anima esiste prima del corpo, cioè prima della nascita o della creazione del corpo umano. Secondo questa visione, le anime esisterebbero in una sorta di stato spirituale prima di incarnarsi in un corpo fisico.

La teoria della preesistenza dell’anima ha radici filosofiche greche, in particolare in Platone (V–IV secolo a.C.). Secondo Platone:

L’anima è eterna e immortale.

Esiste prima del corpo e discende nel mondo materiale.

La nascita è vista come una caduta o prigionia dell’anima nel corpo.

Questa visione ha avuto un’influenza duratura, specialmente nei pensatori cristiani del periodo tardo-antico. Il caso più noto è Origene (III secolo), un’importante teologo e filosofo cristiano di Alessandria, autore di opere fondamentali come il De Principiis.

Origene ipotizzava che tutte le anime fossero create da Dio in uno stato primordiale e spirituale. Le anime, cadendo da Dio a causa dell’uso improprio del libero arbitrio, vengono incarnate nei corpi materiali. L’incarnazione è vista come una punizione pedagogica. Questa visione è in parte influenzata da idee platoniche e da una forte concezione razionale e morale della giustizia divina.

Contraddice la creazione individuale e immediata dell’anima al momento del concepimento. Sminuisce la libertà e dignità del corpo umano. Può implicare una trasmigrazione delle anime o una forma di metempsicosi, concetti estranei al cristianesimo.

Il Concilio di Costantinopoli II (553), convocato da Giustiniano I, condannò la dottrina della preesistenza delle anime:

«Se qualcuno dice o crede che le anime umane preesistono, come se fossero spiriti santi che si sono stancati della contemplazione di Dio e sono caduti nel peccato […] sia anatema.»

Questa affermazione è rivolta alla preesistenza come concezione generale delle anime, non solo alla formulazione di Origene.

La Chiesa cattolica ha affermato nel corso dei secoli il creazionismo (da non confondere con il creazionismo biblico moderno):

Ogni anima umana è creata immediatamente da Dio.

Non è prodotta dai genitori (contro il traducianismo) né esisteva prima del corpo.

L’anima razionale è unita al corpo al momento del concepimento, rendendo l’essere umano persona.

Il Concilio Lateranense V (1513) dichiara esplicitamente che l’anima è creata da Dio.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC 366) insegna che ogni anima spirituale è creata direttamente da Dio – essa non è prodotta dai genitori – ed è immortale.

Tertulliano (II–III secolo) rifiutava la preesistenza dell’anima e propendeva per il traducianismo, cioè l’anima trasmessa dai genitori.

San Gregorio di Nissa (IV secolo) rifiutò la dottrina della preesistenza dell’anima, affermando: «L’anima non è prima del corpo, né il corpo prima dell’anima, ma entrambi hanno origine nello stesso tempo, secondo una certa armonia e connessione voluta da Dio.» (De anima et resurrectione, 28–29)

Gregorio Nazianzeno (IV secolo) affermava: «Non sono stato prima formato, e poi lasciato cadere, e infine di nuovo plasmato: no! Io sono stato creato e introdotto direttamente nella vita. Non sono stato punito prima della mia nascita per qualche peccato. Non mi inchino a favole di questo tipo.» (Oratio 38, In Theophania, sive in Natale Domini, § 11)

San Girolamo (IV–V secolo) rifiutava la dottrina della preesistenza dell’anima: «È un errore affermare che le anime degli uomini abbiano abitato in dimore celesti prima di essere inserite nei corpi, e che secondo la diversità dei meriti esse vengano inviate o nei grembi dei migliori o dei peggiori genitori.» (Epistula 124, ad Marcellam)

Sant’Agostino (IV–V secolo) era indeciso tra traducianismo e creazionismo, ma rifiutava la preesistenza. Nel suo De Civitate Dei (XII, 24) afferma: «Non è stato dato all’uomo di vivere una vita anteriore prima della presente.»

La dottrina della preesistenza dell’anima è considerata eretica perché:

Nega la creazione personale e attuale da parte di Dio.

Riduce la corporeità umana a punizione o accidente.

Sovverte il senso della redenzione e della risurrezione della carne.

Ha implicazioni cicliche o reincarnazioniste (non cristiane).

APOCATASTASI

A cura di Giuseppe Monno

Il termine apocatastasi (dal greco «apokatástasis», «restaurazione») significa il ritorno allo stato originario. In ambito cristiano, è stato impiegato per indicare una dottrina escatologica secondo la quale, alla fine dei tempi, tutte le creature – inclusi i demoni e i dannati – sarebbero restaurate in Dio. Questa concezione, pur trovando un primo sviluppo in Origene (III secolo), è stata successivamente condannata come eretica dalla Chiesa cattolica.

Origene (185–254), influente teologo della scuola alessandrina, elaborò una teoria cosmica della salvezza nella quale tutte le creature razionali – angeli, uomini, demoni – sarebbero state progressivamente purificate e ricondotte a Dio:

Il fine ultimo dell’economia divina è che tutte le creature razionali, dopo punizioni purificatrici, ritornino allo stato originario di comunione con Dio (cfr. De Principiis, I, 6, 1).

Questa teoria, nota come apocatastasi originiana, fu condannata nei secoli successivi, ma influenzò profondamente il pensiero cristiano orientale.

Il Concilio di Costantinopoli (553), pur non nominando Origene direttamente nei canoni ufficiali, approvò gli «anatemi contro Origene», redatti in ambiente imperiale. Tra essi:

«Se qualcuno dice o ritiene che il castigo dei demoni e degli uomini empi sia temporaneo e che alla fine vi sarà una restaurazione (apokatástasis) di tutti, sia anatema.» (Anatema 9)

Questa condanna esclude categoricamente l’idea che i dannati e i demoni possano essere salvati.

Il Concilio Lateranense IV (1215):

«Coloro che muoiono in peccato mortale vanno all’inferno a subire pene eterne.»

Il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992):

«La dottrina della Chiesa afferma l’esistenza dell’inferno e la sua eternità.» (CCC 1035)

La dottrina cattolica riconosce la possibilità della dannazione eterna come conseguenza della libertà umana e del rifiuto definitivo di Dio.

L’ipotesi dell’apocatastasi deve essere confrontata con l’intera testimonianza biblica. Alcuni testi sembrano suggerire una salvezza universale, ma la Scrittura afferma con chiarezza la realtà dell’inferno e della separazione eterna.

Testi apparentemente favorevoli all’apocatastasi

1 Corinzi 15,28:
«E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.»

Atti 3,21:
«È necessario che [Cristo] rimanga in cielo fino al tempo della restaurazione (apocatastasi) di tutte le cose, come Dio ha detto…»

Il contesto biblico parla della restaurazione dell’ordine cosmico nel piano di salvezza, non della salvezza universale automatica, e men che meno della salvezza dei demoni.

Testi contrari all’apocatastasi

Matteo 25,46:
«E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna.»

Apocalisse 20,10:
«E il diavolo che li aveva sedotti fu gettato nello stagno di fuoco e zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta; e saranno tormentati giorno e notte nei secoli dei secoli.»

Ebrei 9,27:
«È stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio.»

Sant’Agostino (354–430), nel suo De Civitate Dei (XXI, 17) afferma: «È assurdo credere che il demonio possa un giorno pentirsi e ottenere il perdono… l’eterna dannazione dei reprobi è verità di fede.»

Agostino ribadisce l’irrevocabilità della dannazione eterna e il rischio reale del rifiuto della grazia.

Papa Gregorio Magno (ca. 540–604), Moralia in lob (XXXIV): «L’inferno è eterno. Non ha fine. Coloro che vi sono entrati, non ne usciranno mai.»

In un’omelia nel 2007 presso la parrocchia romana di Santa Felicita (Roma‑Fidene), Papa Benedetto XVI affermò che «l’Inferno esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore all’amore di Dio».

La Chiesa cattolica, alla luce della Rivelazione biblica, della Tradizione patristica e del Magistero infallibile, rigetta l’apocatastasi come dottrina eretica, soprattutto nella sua forma originiana.

La Chiesa insegna che:

L’inferno è una realtà eterna e non temporanea;

I demoni e i dannati non saranno restaurati alla comunione con Dio;

Tuttavia, la misericordia divina è infinita, e il mistero della salvezza supera ogni calcolo umano;

Si può sperare nella salvezza di molti, ma senza negare il rischio reale della dannazione.

«Oggi è il tempo favorevole, oggi è il giorno della salvezza.» (2 Corinzi 6,2)

LE PREGHIERE RIPETITIVE SONO GRADITE A DIO

A cura di Giuseppe Monno

Matteo 6,7-8
«Pregando, poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire esauditi a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate.»

A partire da questo passo del Vangelo, alcuni ambienti protestanti affermano che le preghiere ripetitive – come il Rosario o le litanie – non siano gradite a Dio. Ma è davvero così? Assolutamente no. In realtà, in nessun versetto della Scrittura si condanna la ripetizione in sé nella preghiera; ciò che Gesù contesta è l’uso vano e meccanico delle parole, non la loro ripetizione devota e carica di fede.

Vediamo alcuni esempi biblici in cui la preghiera ripetitiva è non solo presente, ma anche apprezzata da Dio:

Il Salmo 136 (spesso indicato come Salmo 135 nella numerazione greco-latina) ripete ben ventisei volte l’espressione: «Perché eterna è la sua misericordia» (vv. 1-26).

Il Salmo 150 chiude il Salterio con una serie di dieci inviti alla lode del Signore (vv. 1-6).

La preghiera dei tre giovani nella fornace (Daniele 3,52-90) contiene oltre quaranta ripetizioni della formula: «Benedite, opere tutte del Signore, il Signore».

Gesù stesso, quando insegna a pregare, offre una formula che la Chiesa ha sempre accolto come modello da ripetere: «Padre nostro che sei nei cieli…» (Matteo 6,9-13).

Nel Getsemani, il Signore prega ripetendo le stesse parole per tre volte: «Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà» (Matteo 26,39.42.44).

In Apocalisse 4,8, i quattro esseri viventi intorno al trono di Dio non cessano giorno e notte di proclamare: «Santo, Santo, Santo il Signore Dio, l’Onnipotente, Colui che era, che è e che viene!»


Tutti questi esempi mostrano chiaramente che la preghiera ripetitiva, quando è animata dalla fede, non solo è accettata, ma è anche gradita a Dio.

Gesù, nel passo di Matteo 6, non condanna la ripetizione, ma l’atteggiamento pagano di chi pensa di ottenere qualcosa da Dio solo per mezzo di formule lunghe e vuote, senza coinvolgimento interiore. I pagani credevano che la divinità dovesse essere persuasa o “obbligata” a esaudire, attraverso pratiche magiche o riti meccanici. Gesù ci insegna invece che il Padre celeste conosce i nostri bisogni ancora prima che glieli esprimiamo.

I cattolici, nelle loro preghiere, non si affidano alla quantità delle parole, ma pregano con amore, fede e speranza, proprio come insegna la Scrittura. Le ripetizioni nel Rosario o nelle litanie non sono formule vuote, ma espressioni di un amore che si rinnova, come accade fra due persone innamorate che non si stancano mai di dirsi: «Ti amo».

E se l’amato terreno non si stanca di sentirsi ripetere parole d’affetto, quanto più Dio, che è l’Amore infinito, si compiace delle parole sincere dei suoi figli. Come gli angeli che incessantemente lodano Dio con la stessa invocazione, così anche noi possiamo ripetere con cuore puro le nostre preghiere, e Dio le accoglie con gioia.

L’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA

A cura di Giuseppe Monno

L’anima e lo spirito

Rifacendosi a queste parole di San Paolo:

«E tutto ciò che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo» (1 Tessalonicesi 5,23),

alcuni autori, in particolare nella teologia protestante più recente, hanno sostenuto una visione tripartita dell’essere umano, ovvero costituito da corpo, anima e spirito. Tuttavia, questa interpretazione è stata contestata dalla tradizione patristica e dalla teologia cattolica, che riconoscono nell’essere umano un’unica anima razionale e spirituale, forma sostanziale del corpo.

In effetti, quando San Paolo usa il termine «spirito» (pneuma), non introduce una dualità della dimensione immateriale, ma intende lo spirito come l’anima in quanto elevata dalla grazia alla comunione con Dio. Questo uso è coerente con il contesto biblico in cui «anima» (psyché) e «spirito» (pneuma) sono spesso intercambiabili, pur indicando sfumature diverse: l’anima come principio di vita e coscienza, e lo spirito come apertura all’azione divina. Il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC 367) afferma:

«Talvolta si fa distinzione tra anima e spirito. Così San Paolo prega per la santificazione dell’uomo ‘tutto intero, spirito, anima e corpo’ (1 Tessalonicesi 5,23). La Chiesa insegna che questa distinzione non introduce una dualità nell’anima. ‘Spirito’ significa che fin dalla sua creazione l’uomo è ordinato alla sua fine soprannaturale e che la sua anima è capace di essere elevata gratuitamente alla comunione con Dio.»

Il significato dei termini nefesh, psyché, ruach e pneuma

Per comprendere l’antropologia biblica, è essenziale analizzare i termini originali usati nella Scrittura:

nefesh (ebraico) e psyché (greco) indicano la vita (1 Re 19,4; Ezechiele 18,4; Matteo 16,25-26; 20,28; Giovanni 15,13), la persona vivente (Deuteronomio 20,16; Giosuè 10,28.40; Apocalisse 16,3), ma anche l’aspetto interiore dell’uomo (1 Re 17,21-22; Matteo 10,28; Apocalisse 6,9). Possono riferirsi all’intera persona (Genesi 2,7), alla bocca (Isaia 5,14; Abacuc 2,5), alla gola (Proverbi 25,25), persino al sangue (Levitico 17,14), a seconda del contesto.

ruach (ebraico) e pneuma (greco), anch’essi flessibili, indicano spesso lo spirito vitale (Siracide 34,13; Giacomo 2,26; 1 Pietro 3,19) o il respiro (Salmi 146,4) e, in contesto cristiano, lo Spirito Santo e i suoi doni (Isaia 11,2-3).

Nel pensiero biblico, l’uomo è un essere vivente unificato, non una somma di parti. Solo nel pensiero greco posteriore (Platone, in particolare) si elabora una netta separazione tra corpo e anima. Tuttavia, la rivelazione cristiana, pur accogliendo il lessico greco, lo trasforma profondamente.

L’immortalità dell’anima nella Sacra Scrittura

L’idea che l’anima sopravviva alla morte del corpo si sviluppa progressivamente nella Bibbia, fino a essere chiaramente espressa nel Nuovo Testamento. Alcuni passi dell’Antico Testamento lo prefigurano:

Giobbe 19,26-27

«Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne, vedrò Dio.»

Questo passaggio, di difficile traduzione, viene spesso interpretato nella tradizione cristiana come un’affermazione della speranza escatologica di vedere Dio anche dopo la morte. Sebbene il libro di Giobbe sia uno dei testi sapienziali più antichi, lascia spazio a un’idea di sopravvivenza personale.

2 Maccabei 15,12-16

Il Secondo Libro dei Maccabei, scritto nel II secolo a.C., riflette una teologia già evoluta dell’aldilà. La visione di Giuda Maccabeo, in cui appaiono i defunti Onia e Geremia, è una chiara testimonianza dell’esistenza dell’anima dopo la morte e della comunione dei santi, anticipando la dottrina cattolica sull’intercessione dei santi.

Matteo 10,28

«Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima…»

Gesù qui distingue tra anima e corpo in senso escatologico. Solo Dio ha il potere di giudicare definitivamente l’anima, che non muore con il corpo. La Geènna, simbolo del giudizio, richiama l’idea di una retribuzione post-mortem.

Luca 16,22-25 (Parabola del ricco e Lazzaro)

Gesù descrive il destino delle anime dopo la morte con grande realismo: Lazzaro viene consolato, il ricco è tormentato. Al di là del linguaggio figurato, la parabola afferma:

sopravvivenza cosciente dopo la morte;

retribuzione individuale;

impossibilità di passaggio tra le due condizioni.

2 Corinzi 5,6-10

Filippesi 1,23-24

San Paolo, nella sua teologia paolina della resurrezione, esprime chiaramente la coscienza di una vita con Cristo che inizia già dopo la morte. Il «partire dal corpo» significa essere presso il Signore, in attesa della resurrezione finale, quando anima e corpo si ricongiungeranno (cfr. 1 Corinzi 15).

Apocalisse 6,9-10

Le anime dei martiri gridano sotto l’altare: immagine fortemente liturgica, che mostra la comunione tra cielo e terra e l’attesa della giustizia finale. L’anima non solo vive, ma presta culto e intercede, un’anticipazione della “liturgia celeste” descritta in Apocalisse 7.

Le difficoltà sapienziali: Qoèlet

L’autore del Qoèlet, con un tono pessimistico, afferma:

«Tutto ritorna alla polvere» (Qoèlet 3,20)

e

«I morti non sanno nulla…» (Qoèlet 9,5).

Tuttavia, la stessa opera termina con un’apertura:

«E ritorni la polvere alla terra com’era prima, e lo spirito torni a Dio che lo ha dato.» (Qoèlet 12,7)

La tensione del Qoèlet riflette la fase ancora incompiuta della rivelazione sull’aldilà, ma non nega la sopravvivenza dell’anima. Il pieno sviluppo si avrà solo con la rivelazione cristiana.

La dottrina dell’immortalità dell’anima nella Tradizione cristiana

Già i primi Padri (Giustino, Ireneo, Tertulliano) affermano con forza che l’anima è immortale, non per natura, ma per dono di Dio. Origene distingue tra immortalità «naturale» (come credeva Platone) e «condizionata»: l’anima può vivere per sempre se unita a Dio.

Concilio Lateranense V (1513):

«L’anima è immortale e individuale, e sopravvive al corpo.»

Questa affermazione definisce in modo solenne ciò che era già stato creduto sempre e ovunque nella Chiesa.

Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC 366):

«La Chiesa insegna che ogni anima spirituale è creata direttamente da Dio – non è ‘prodotta’ dai genitori – ed è immortale: essa non perisce quando si separa dal corpo nella morte.»

Risurrezione e giudizio finale

Secondo la Scrittura, l’anima dell’uomo sopravvive alla morte, ma il suo destino ultimo si compirà nella risurrezione dei corpi:

«Molti di quelli che dormono nella polvere si risveglieranno.» (Daniele 12,2)

«Verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce…» (Giovanni 5,28-29)

«I morti in Cristo risorgeranno per primi.» (1 Tessalonicesi 4,16)

Alla fine dei tempi, corpo e anima saranno riuniti per essere giudicati insieme e partecipare eterna beatitudine o alla perdizione eterna (Matteo 25,31-46).

Conclusione

La dottrina dell’immortalità dell’anima è radicata nella Rivelazione e chiarita progressivamente nella storia della salvezza. L’anima dell’uomo, creata da Dio e immagine di Lui, non perisce con la morte del corpo, ma continua ad esistere in stato cosciente. In attesa della risurrezione finale, essa riceve già un premio o un castigo temporaneo, preludio della retribuzione definitiva alla fine dei tempi.

CALVINISMO

A cura di Giuseppe Monno

Il Calvinismo, una delle principali ramificazioni della Riforma protestante, prende il nome da Giovanni Calvino (1509–1564), riformatore francese attivo a Ginevra. Le sue dottrine influenzarono profondamente le chiese riformate europee e successivamente molte denominazioni protestanti, in particolare nei Paesi Bassi, in Scozia e in America del Nord. Tuttavia, la Chiesa cattolica considera il Calvinismo un’eresia formale, cioè una deviazione sostanziale dalla fede autentica, in particolare per quanto riguarda la soteriologia, la sacramentaria e la visione ecclesiologica.

Dopo la pubblicazione delle 95 tesi di Lutero nel 1517, il cristianesimo occidentale entrò in un periodo di profondo sconvolgimento. Calvino, successivo a Lutero e Zwingli, sistematizzò in modo coerente e rigoroso molte dottrine riformate, pubblicando nel 1536 l’opera fondamentale Institutio Christianae Religionis. La sua teologia attirò molti seguaci, portando alla formazione delle chiese riformate.

Il Concilio di Trento (1545–1563), convocato in risposta alla Riforma protestante, condannò formalmente molte dottrine protestanti, inclusi i principali punti del Calvinismo. Questo concilio ribadì la dottrina cattolica su grazia, giustificazione, sacramenti, gerarchia ecclesiale e Tradizione, opponendosi così alla visione di Calvino.

Uno dei punti più controversi è la dottrina della doppia predestinazione: Calvino affermava che Dio, in modo sovrano e immutabile, ha predestinato alcuni alla salvezza e altri alla dannazione, senza considerare il libero arbitrio e le opere dell’uomo. Questo contrasta radicalmente con l’insegnamento cattolico secondo cui Dio desidera la salvezza di tutti (1 Timoteo 2,4), e che la libertà dell’uomo ha un ruolo reale nella risposta alla grazia.

Il Concilio di Trento affermò che nessuno può dire con certezza assoluta di essere predestinato (Sessione VI, Canoni 15–17), e ribadì che l’uomo può cooperare con la grazia di Dio.

Per Calvino, dopo il peccato originale l’uomo ha perduto ogni capacità di volere il bene e non può far altro che peccare, a meno che Dio non intervenga con una grazia irresistibile. Ma differentemente dal pensiero di Calvino, il libero arbitrio, pur ferito dal peccato, non è annientato. La grazia non sopprime, ma eleva la libertà umana. Questo punto è centrale nella dottrina cattolica e nella teologia morale.

Il Calvinismo afferma che la salvezza si ottiene per sola fede, senza le opere, che sono solo frutto della fede e non condizione della salvezza. Il Concilio di Trento (Sessione VI, Canoni 9–10) rigettò la sola fide, insegnando che la giustificazione avviene per grazia mediante la fede e le opere, cioè mediante la cooperazione dell’uomo con la grazia divina, che lo rende realmente giusto, e non solo imputato come tale.

Calvino rigettò la dottrina cattolica della Transustanziazione, sostenendo invece una presenza spirituale di Gesù Cristo nell’Eucaristia, mediata dalla fede, ma non una presenza reale e sostanziale. La Chiesa cattolica insegna che nell’Eucaristia, tutta la sostanza del pane e del vino si convertono realmente nella sostanza del Corpo e Sangue di Cristo (Concilio di Trento, Sessione XIII), e che questa è una verità di fede obbligatoria per tutti i cattolici.

Calvino riconosce solo due sacramenti: Battesimo ed Eucaristia, e nega l’efficacia ex opere operato. Inoltre, rifiuta l’autorità papale, la successione apostolica, e l’ordinazione sacerdotale sacramentale. La Chiesa cattolica riconosce sette sacramenti, e afferma la necessità della mediazione sacerdotale e della Chiesa gerarchica come parte del disegno divino (Lumen Gentium). Il rifiuto dell’episcopato come sacramento invalida l’autorità ecclesiastica nel Calvinismo.

Il Calvinismo sostiene la dottrina del sola Scriptura, affermando che la sola Bibbia è l’autorità sufficiente per la fede e la morale. Questo porta a una interpretazione soggettiva della Scrittura. Il Magistero cattolico insegna che la Sacra Scrittura e la Tradizione apostolica sono due fonti inscindibili della Rivelazione divina, interpretate autenticamente dal Magistero (Dei Verbum 9–10).

Le dottrine calviniste furono sistematicamente confutate tra il 1546 e il 1563. Papa Pio IV promulgò il Credo del Popolo di Dio, in cui si riaffermano le dottrine cattoliche rigettate dal Calvinismo. Encicliche papali (es. Mortalium Animos di Pio XI) ribadiscono che l’unità della Chiesa non può sussistere con dottrine eretiche.

Per la Chiesa cattolica considera il Calvinismo una forma sistematica di eresia che compromette i fondamenti stessi della fede cristiana: la visione di Dio, dell’uomo, della salvezza e della Chiesa. Sebbene riconosca elementi di verità nelle confessioni protestanti (come il Battesimo valido), la Chiesa continua a insegnare che la pienezza della verità si trova solo nella Chiesa cattolica, e che le dottrine calviniste, per quanto coerenti e spiritualmente vissute da molti fedeli, rappresentano una deviazione oggettiva dalla fede trasmessa dagli apostoli.

LUTERANESIMO

A cura di Giuseppe Monno

Il Luteranesimo nasce nel 1517, quando Martin Lutero, monaco agostiniano e teologo tedesco, pubblica le 95 tesi contro l’abuso delle indulgenze. L’intento iniziale era di riforma interna alla Chiesa, ma le conseguenze furono ben più radicali. Nel giro di pochi anni, Lutero mise in discussione non solo prassi pastorali, ma dogmi fondamentali della fede cattolica: l’autorità del Papa, la mediazione della Chiesa, il valore dei sacramenti, e la dottrina della giustificazione.

Il Concilio di Trento (1545–1563), convocato in risposta alla Riforma protestante, condannò solennemente molte delle tesi luterane, configurandole come eresie, deviazioni gravi e pertinaci dalla verità rivelata. Lutero, pur essendo battezzato e ordinato, rigettò verità dogmatiche rivelate, e lo fece in modo pubblico, persistente e sistematico.

Lutero sosteneva che solo la Scrittura – senza la Tradizione e il Magistero – fosse norma di fede. Il Concilio di Trento affermò che la Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un’unica fonte della Rivelazione divina (Dei Verbum 9-10).

Per Lutero la giustificazione dell’uomo avverrebbe solo mediante la fede, indipendentemente dalle opere. Il Concilio di Trento ribadì che la giustificazione è un processo che richiede la cooperazione dell’uomo alla grazia (Decretum de Iustificatione), includendo opere buone come frutti della grazia.

Lutero affermava il sacerdozio universale dei fedeli, negando la distinzione ontologica tra laici e ministri ordinati. La Chiesa cattolica ribadì il sacerdozio ministeriale come sacramento distinto e istituito da Cristo.

Lutero negava la Transustanziazione, affermando piuttosto una “presenza reale” ma “non permanente” (questa dottrina prenderà il nome di Consustanziazione). Ridusse inoltre il numero dei sacramenti da sette a due: Battesimo ed Eucaristia. Il Concilio di Trento definì dogmaticamente la presenza reale, vera e sostanziale di Cristo nell’Eucaristia, e confermò i sette sacramenti.

Il Luteranesimo causò una frattura nell’unità ecclesiale della cristianità occidentale. Il rifiuto dell’autorità del Papa e del Magistero portò a un pluralismo dottrinale che si è ampliato nei secoli. La Riforma luterana ha comportato scisma (separazione dalla comunione con la Chiesa di Roma), eresia formale (negazione di verità di fede obbligatorie), perdita di validità sacramentale (eccetto il Battesimo), a causa dell’interruzione della successione apostolica.

Attraverso il dialogo ecumenico, oggi la Chiesa cattolica riconosce nel Luteranesimo alcuni elementi di verità e di santificazione (Unitatis Redintegratio, 3). Ciononostante permangono differenze sostanziali, soprattutto su giustificazione, sacramenti ed ecclesiologia.

Nel solco della verità nella carità, la Chiesa cattolica continua a testimoniare con fermezza i dogmi ricevuti dagli apostoli, invitando tutti all’unità nella piena comunione con Roma, unico ovile guidato dal successore di Pietro.

ZWINGLIANESIMO

A cura di Giuseppe Monno

Il Zwinglianesimo è una eresia sviluppatasi nel contesto della Riforma protestante del XVI secolo. Prende il nome da Ulrico Zwingli (1484–1531), un riformatore svizzero contemporaneo di Martin Lutero, ma con teologie proprie, spesso divergenti da quelle luterane. Zwingli fu un presbitero cattolico svizzero, fortemente influenzato dall’umanesimo rinascimentale e da Erasmo da Rotterdam. Divenne predicatore a Zurigo, dove iniziò a criticare pubblicamente la dottrina e la prassi della Chiesa cattolica.

Nel 1519, Zwingli cominciò a predicare basandosi esclusivamente sulla Scrittura (principio del Sola Scriptura), rifiutando l’autorità della Tradizione e del Magistero. Nel 1523, ottenne il sostegno del consiglio cittadino per introdurre riforme radicali a Zurigo, rompendo di fatto con Roma.

Zwingli sosteneva che l’Eucaristia fosse solo un simbolo del corpo e sangue di Gesù Cristo, rifiutando la Transustanziazione. Per lui, “questo è il mio corpo” va inteso come una metafora.

La Chiesa cattolica considera eretica questa dottrina, perché nega il sacramento centrale della fede cristiana, che è la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, proclamata dal Concilio di Trento.

Zwingli sosteneva che la Bibbia è l’unica autorità in materia di fede. La Chiesa cattolica insegna invece che la Sacra Scrittura, la Tradizione e il Magistero formano insieme il deposito della fede. Il rifiuto della Tradizione apostolica è considerato un errore dottrinale grave.

Zwingli trasformò la Santa Messa in una semplice commemorazione, eliminando ogni riferimento al Sacrificio. Per la Chiesa cattolica, la Santa Messa è il rinnovamento incruento del Sacrificio di Gesù Cristo sulla croce. Il negarlo equivale a negare il significato salvifico della liturgia cattolica.

Zwingli ordinò la rimozione di statue e immagini sacre, ritenendole idolatriche. Anche il culto della Vergine Maria fu eliminato. Questo fu visto come un attacco alla devozione popolare e alla spiritualità cattolica, considerata parte integrante della vita cristiana.

Abolì i voti monastici e permise il matrimonio dei sacerdoti. Per il cattolicesimo, questo rappresenta un rifiuto del valore sacrale della vita consacrata. Il sacerdote infatti è figura di Cristo e deve rendere testimonianza non alla vita materiale, ma alla futura vita spirituale (Decreto Presbyterorum Ordinis).

Zwingli si scontrò violentemente con Lutero sul significato dell’Eucaristia. Il loro famoso colloquio a Marburgo (1529) terminò con un fallimento: nonostante accordi su molte dottrine, non poterono trovare un’intesa sulla presenza di Cristo nell’Eucaristia. Lutero, pur negando la Transustanziazione, non negava la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia.

Zwingli morì nel 1531 in battaglia durante la Seconda guerra di Kappel, combattendo con l’esercito della Confederazione svizzera protestante. Questo fu interpretato da molti cattolici del tempo come una punizione divina.

La Chiesa cattolica, attraverso il Concilio di Trento (1545–1563), condannò formalmente molte delle dottrine riformate, inclusi gli errori di Zwingli. Il Concilio riaffermò la presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia, il Sacrificio della Santa Messa, il valore della Tradizione apostolica, l’importanza dei sacramenti, il ruolo del clero consacrato e del celibato sacerdotale.

Il Zwinglianesimo, pur meno noto del Luteranesimo o Calvinismo, rappresenta una frattura profonda nella cristianità occidentale. È un’eresia perché nega verità fondamentali della fede, minando l’unità, la liturgia e la sacramentalità della Chiesa. Tuttavia, lo studio delle sue origini aiuta a comprendere meglio la risposta della Chiesa e il valore delle verità preservate nella fede cattolica.

I “Messaggi da Gesù all’Umanità” a confronto con la Dottrina Cattolica

A cura di Giuseppe Monno

Introduzione

Nel libro dell’Apocalisse si legge:

“Ma ho da rimproverarti che lasci fare a Gezabele, la donna che si spaccia per profetessa e insegna e seduce i miei servi.” (Ap 2,20)

Dal 2010 vengono diffusi presunti messaggi di origine divina tramite Maria Divine Mercy (pseudonimo di una presunta veggente irlandese, identificata come Mary Carberry). Questi messaggi presentano contenuti in contrasto con l’insegnamento autentico della Chiesa. Analizziamone alcuni, alla luce della Sacra Scrittura, del Magistero e del Catechismo della Chiesa Cattolica (“CCC”).

1. Autorità nella Chiesa e discernimento

Messaggio (1 Giugno 2011):

“Non chiedere a qualcun altro i suoi punti di vista, poiché non sono qualificati per commentare la Mia Parola Divina.”

Risposta dottrinale:
La Chiesa è assistita dallo Spirito Santo per guidare i fedeli nella verità. Solo il Magistero – cioè il collegio dei vescovi in comunione col Papa – ha l’autorità di interpretare autenticamente la Parola di Dio (CCC 85-87). I Santi, come suor Faustina, furono sempre invitati all’obbedienza ai confessori. Le rivelazioni private non possono mai contraddire la fede (CCC 67).

2. Il Sacramento della Riconciliazione

Messaggio (9 Febbraio 2012):

“Recitate la Crociata di preghiera n. 24 per l’indulgenza plenaria […] per l’assoluzione.”

Risposta dottrinale:
L’assoluzione dei peccati mortali può avvenire solo tramite il sacramento della confessione o, in casi estremi, tramite l’atto di contrizione perfetta, sempre con l’intenzione di confessarsi appena possibile (CCC 1452). L’indulgenza plenaria richiede condizioni precise: confessione sacramentale, comunione eucaristica, preghiera per il Papa e distacco totale dal peccato (CCC 1471-1479). Nessuna preghiera privata può sostituire tali condizioni.

3. I Sigilli dell’Apocalisse

Messaggio (4 Marzo 2012):

“Il tempo dell’apertura dei Sigilli, quando aprirai il settimo Sigillo, è alle porte.”

Risposta dottrinale:
Nell’Apocalisse, solo Cristo ha il potere di aprire i Sigilli del Libro (Ap 5,9). Attribuire tale ruolo a una veggente è un abuso del linguaggio biblico e un segno di confusione teologica.

4. Esaltazione di Benedetto XVI

Messaggio (12 Aprile 2012):

“Il mio Papa Benedetto XVI è l’ultimo vero Papa sulla Terra.”

Risposta dottrinale
Il messaggio implica che qualsiasi Papa successivo a Benedetto XVI, non è riconosciuto da Maria Divine Mercy (“MDM”) come legittimo. Si tratta di un’affermazione scismatica, in contraddizione con l’insegnamento della Chiesa secondo cui il Papa eletto validamente è il successore legittimo di Pietro (CCC 880-882; LG 23-23; CIC can. 332; UDG art. 88).

5. Il Sigillo del Dio Vivente

Messaggio (17 Maggio 2012):

“La Crociata del Sigillo del Dio Vivente […] è il più grande Sigillo di Protezione.”

Risposta dottrinale:
Il vero Sigillo di Dio è lo Spirito Santo, ricevuto nei sacramenti del Battesimo e della Confermazione (Ef 1,13-14; CCC 1296). Qualsiasi simbolo estraneo alla tradizione sacramentale, specialmente se associato a ideologie settarie o simbolismi ambigui, non ha fondamento nella fede cattolica.

6. La Medaglia della Salvezza

Messaggio (20 Gennaio 2014):

“Chi riceve la Medaglia della Salvezza otterrà un dono straordinario, anche se non benedetta.”

Risposta dottrinale:
La salvezza si ottiene per grazia, mediante la fede operante nella carità (Ef 2,8-9; Gc 2,26). Nessun oggetto può assicurare salvezza senza la fede viva e la vita sacramentale. Le sacramentali, come le medaglie riconosciute dalla Chiesa (es. Medaglia Miracolosa), hanno valore solo se approvate, benedette e vissute in spirito di fede (CCC 1667-1670). Nessuna “medaglia” può sostituire i mezzi istituiti da Cristo per la salvezza: i sacramenti.

7. Apparizioni annunciate ma non avvenute

Messaggio (24 Gennaio 2014):

“Apparirò a Lourdes, Fatima, Guadalupe, La Salette e Garabandal in questa primavera.”

Risposta dottrinale:
Queste apparizioni non si sono verificate. Secondo la Scrittura, se una profezia non si realizza, non proviene da Dio (Dt 18,20-22). Gesù stesso ha avvertito di non seguire falsi profeti che predicono apparizioni e segni straordinari per ingannare anche gli eletti (Mt 24,23-27).

L’anonimato

Maria Divine Mercy non ha mai voluto rivelare la sua vera identità, cosa inusuale tra i veri veggenti. In questo modo, la presunta veggente ha evitato di affrontare personalmente la Commissione di inchiesta sulle apparizioni, istituita dal vescovo locale, la quale avrebbe potuto, in caso di riscontri significativi, coinvolgere anche la Conferenza Episcopale Nazionale e il Dicastero per la Dottrina della Fede.

L’indagine avrebbe previsto la raccolta di testimonianze e prove, l’audizione della veggente, una valutazione psicologica, l’analisi dei messaggi e la verifica di eventuali miracoli o segni soprannaturali.

La Condanna della Chiesa

I cosiddetti “Messaggi da Gesù all’Umanità” contengono numerose affermazioni in contraddizione con la dottrina cattolica. In alcuni casi minano l’autorità del Magistero, distorcono la dottrina sui sacramenti e utilizzano un linguaggio escatologico fuorviante.

La Chiesa ha condannato ufficialmente i messaggi di Maria Divine Mercy come non autentici, fuorvianti e pericolosi per la fede. La condanna è arrivata da diverse autorità ecclesiastiche:

Arcidiocesi di Dublino (Irlanda), Diocesi di Portland (USA), Arcidiocesi di Brisbane (Australia), Arcidiocesi di Melbourne (Australia), Diocesi di Parramatta (Australia), Conferenza Episcopale Slovacca, Diocesi di Salisburgo (Austria), Diocesi di London (Canada), Arcidiocesi di Singapore, Conferenza Episcopale delle Filippine.

Considerano Maria Divine Mercy una falsa profetessa, dichiarano che i suoi messaggi non hanno alcuna approvazione ecclesiastica e risultano in contrasto con l’insegnamento della Chiesa. Sconsigliano pertanto di procurarsi, distribuire o utilizzare oggetti devozionali a lei collegati, in quanto non approvati, e vietano di promuovere o impiegare tali testi all’interno delle associazioni cattoliche.

Prudenza e discernimento

La Chiesa ha sempre invitato alla prudenza e al discernimento, ricordando che «non ogni spirito viene da Dio» (1Gv 4,1). I fedeli devono attenersi alla fede trasmessa dagli apostoli, custodita dalla Chiesa e insegnata dal Magistero, unico interprete autentico della Rivelazione.

Mary McGovern Carberry

Tra il 2013 e il 2015 alcune ricerche pubbliche identificarono Mary McGovern Carberry come la figura reale di Maria Divine Mercy. Questo fu brillantemente documentato da Mark Saseen e MidwayStreet, ulteriormente confermato dall’analisi vocale del giornale Irish Mail on Sunday, e accompagnato da sanzioni ecclesiastiche da parte delle gerarchie cattoliche.

Conclusione

I messaggi attribuiti a Maria Divine Mercy non sono riconosciuti dalla Chiesa Cattolica e contengono affermazioni che contrastano con l’insegnamento ufficiale, seminano confusione tra i fedeli e promuovono un’immagine distorta di Dio e della Chiesa. Il contenuto apocalittico e allarmista, unito all’anonimato dell’autrice e alla mancanza di discernimento ecclesiale, rendono questi messaggi non affidabili. I fedeli sono pertanto invitati a seguire il Magistero autentico della Chiesa e a diffidare da rivelazioni private non approvate, rimanendo saldi nella fede, nella carità e nella speranza cristiana.

Commento al Vangelo secondo Giovanni (14,28): Il Padre è maggiore di Me

A cura di Giuseppe Monno

Giovanni 14,28

“Avete udito che vi ho detto: «Vado e tornerò a voi». Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è maggiore di me.”

Commento

Per esprimere la differente condizione tra Dio Padre e Gesù Cristo, l’evangelista utilizza il termine greco meízôn, che significa “più grande”, “maggiore”, “superiore” in riferimento a una posizione o condizione. Non si tratta dunque di una superiorità ontologica (di “essere”), bensì funzionale o economica, cioè relativa alla missione e allo stato assunto dal Verbo incarnato.

Se l’intenzione dell’evangelista fosse stata quella di indicare una superiorità qualitativa o ontologica del Padre sul Figlio, avrebbe impiegato il termine kreíttôn, che in greco designa ciò che è “migliore”, “più nobile”, “più eccellente” per natura. Giovanni, invece, sceglie meízôn, segnalando una superiorità riferita alla condizione umana assunta dal Verbo nel tempo dell’incarnazione.

Giunta la pienezza del tempo, il Verbo eterno ha unito a se stesso ipostaticamente un corpo e un’anima razionale. Così il Signore, restando pienamente Dio (Giovanni 20,28; Colossesi 2,9; Tito 2,13; 2 Pietro 1,1), è divenuto anche pienamente uomo (Giovanni 1,14; Filippesi 2,7).

Quando, dopo la risurrezione, Gesù afferma di “andare al Padre”, lo dice in riferimento alla sua natura umana. Come Verbo eterno, Egli è sempre presso il Padre, partecipando indivisibilmente all’Essere stesso del Padre; ma come uomo, Egli torna al Padre, portando con sé la natura umana glorificata.

Dunque, l’espressione «il Padre è maggiore di me» si riferisce alla condizione umana del Cristo. Nella sua divinità, Gesù è consubstantialis Patri, della stessa sostanza del Padre, e per questo può affermare: “Tutto quello che il Padre possiede è mio” (Giovanni 16,15), e: “Io e il Padre siamo Uno” (Giovanni 10,30). Come Persona divina, Gesù è uguale al Padre, possedendo indivisibilmente la medesima divinità del Padre.

Gesù non è il Padre, ma un solo Dio con Lui e con lo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio (Atti 16,6-7; Romani 8,9; Galati 4,6; Filippesi 1,19; 1 Pietro 1,10-11) come da un solo principio. Il Padre comunica al Figlio tutto il proprio Essere, e attraverso il Figlio lo dona allo Spirito Santo, in una sola e indivisibile comunione trinitaria. È per questo che i tre sono numericamente un solo Dio (Matteo 28,19).

Commento al Vangelo secondo Marco (13,32): Se Gesù Cristo possa ignorare qualcosa

A cura di Giuseppe Monno

Marco 13,32

“Quanto poi a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre.”

Commento

Non spettava ai discepoli conoscere quei tempi, poiché riservati all’autorità di Dio Padre (Atti 1,7). Ma Gesù è un solo Dio col Padre (Giovanni 10,30) e conosce perfettamente tutte le cose (Giovanni 21,17), poiché in lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza (Colossesi 2,3), perciò nulla gli è occulto, compreso il momento del giudizio.

Nel linguaggio teologico dell’economia della salvezza, l’espressione “non sapere” attribuita a Gesù non va interpretata come una reale ignoranza nella sua Persona divina, ma come una forma pedagogica di “non rivelazione”, in vista del disegno salvifico. Non si tratta di un limite ontologico nella sua divinità, ma di un atto intenzionale, funzionale alla missione redentiva e alla crescita spirituale dell’umanità.

Gesù Cristo, Verbo incarnato, conosce tutte le cose nella sua natura divina, ma sceglie di manifestare la verità in modo progressivo, secondo la capacità di accoglienza dei suoi discepoli. Questa è l’economia della rivelazione, cioè una rivelazione dosata nel tempo, con sapienza e pazienza, per guidare l’uomo alla fede, alla speranza e alla vigilanza.

In questo senso, il “non sapere” di Gesù è una modalità educativa: non perché Egli ne sia privo, ma perché non vuole forzare l’uomo alla conoscenza, bensì invitarlo a cercare, a vigilare, a crescere. Il suo silenzio o la sua reticenza su alcune verità sono atti pedagogici, non segni di ignoranza.

Sant’Agostino, a tal proposito, afferma: “Poté dire di non sapere ciò che non voleva che gli altri sapessero per mezzo di lui.” (De Trinitate, I, 12). Cristo non mente, ma adotta un linguaggio funzionale al mistero. Anche i suoi silenzi (Marco 8,10-13; Luca 23,8-9), le contro-domande (Marco 11,27-33), l’insistenza sul silenzio di quelli che Egli guariva o riportava alla vita (Marco 1,44; 5,43), e il comando ai discepoli (Marco 8,30; 9,9) e ai demòni (Marco 1,25.34) di non parlare di Lui, mostrano una chiara intenzionalità pedagogica: sceglie il momento opportuno per rivelare, in sintonia con la maturazione interiore dei suoi interlocutori (Giovanni 16,12: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per ora non siete in grado di portarne il peso”).

Così si manifesta la sapienza dell’economia salvifica della rivelazione: il Verbo eterno guida l’uomo, passo dopo passo, verso la pienezza della verità (Giovanni 16,13), senza imporre, ma accompagnando con amore la libertà umana.

Le parole «oude ho huios» (neppure il Figlio) sono omesse per ragioni teologiche in alcuni manoscritti bizantini tardivi e in alcune copie della Vulgata. Sono presenti invece in manoscritti più autorevoli: Codice Vaticano (B), Codice Sinaitico (א), Papiro 88, Codice Alessandrino (A), Codice Ephraemi Rescriptus (C), Codice Washingtoniano (W), Codice Bezae (D), risalenti ai secoli IV-VI. Ma noi rispondiamo a chi ci chiede ragione di quelle parole, e perché non esultino i discepoli di Ario e di Eunomio credendo di poterci zittire.

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