RESURREZIONE DI GESÙ CRISTO

A cura di Giuseppe Monno

Si parla di resurrezione quando a tornare alla vita è questo corpo corruttibile, che diviene incorruttibile, secondo le parole dell’apostolo:

«È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità. Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria.» (1 Corinzi 15,53-54)

Riferendosi alla morte e alla resurrezione del suo corpo, Cristo disse ai Giudei: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere.» (Giovanni 2,19-22)

Cristo non fece sorgere “un altro tempio”, ma “questo tempio”, cioè lo stesso corpo che fu crocifisso sulla croce. Il Damasceno, citato da San Tommaso, afferma: «Risorgere è solo di chi è caduto.» (Summa Theologiae, III, q. 54, a. 1)

Ora, a cadere fu quel corpo messo a morte sulla croce. Perciò, affinché la resurrezione di Cristo fosse reale, era indispensabile che a risorgere fosse quel medesimo corpo, non un altro; altrimenti la resurrezione non sarebbe stata reale, ma solo apparente.

Quando Cristo apparve in mezzo ai suoi discepoli mentre si trovavano in casa a porte chiuse, essi credevano di aver visto un fantasma. Ma Gesù disse loro di guardarlo e toccarlo, poiché un fantasma non ha carne e ossa come invece essi vedevano in lui. Mostrò loro le ferite nelle mani, nei piedi e nel costato, e allora i discepoli gioirono nel vedere il Risorto
(Luca 24,36-46; Giovanni 20,26-27).

Gesù prese anche del cibo e ne mangiò con i suoi discepoli (Luca 24,42-43), non per bisogno, ma perché ne aveva la facoltà, e per mostrare loro la realtà e la natura del suo corpo. Cristo mostrò ai suoi discepoli la realtà del suo corpo risorto, uguale nella natura ma diverso nella gloria.

Come afferma San Tommaso, citando San Beda: «Cristo conservò le ferite della passione non per incapacità di sanarle, ma per portare in perpetuo il trionfo della sua vittoria.»

E aggiunge:

«Con quelle ferite poté confermare nella fede della resurrezione i cuori dei suoi discepoli.» (Summa Theologiae, III, q. 54, a. 4)

Perciò Gesù Cristo è risorto con lo stesso corpo, ma la resurrezione lo ha glorificato, trasformandolo in un corpo spirituale, secondo quanto dice l’apostolo: «Così anche la resurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso; si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale.» (1 Corinzi 15,42-44)

Corpo spirituale non significa «incorporeo» come lo sono gli spiriti. Corpo spirituale significa che ogni atto del corpo è sottomesso alla volontà dello spirito, come afferma San Tommaso (Summa Theologiae, III, q. 54, a. 1 ad 2).

Sempre San Tommaso, citando Severiano, dice: «L’aspetto di Cristo è mutato, diventando da mortale immortale, acquistando cioè l’aspetto della gloria, non già perdendo la sostanza delle proprie fattezze.»

E aggiunge, in riferimento a quei discepoli che non riconobbero subito il Risorto: «Tuttavia a quei discepoli di cui si parla, egli non apparve nel suo aspetto glorioso; ma come era in suo potere rendere il proprio corpo visibile o invisibile, così era in suo potere far sì che la propria figura apparisse in forma gloriosa, o non gloriosa, oppure in forma semigloriosa, o in qualsiasi altra maniera. E basta una piccola differenza perché uno possa apparire sotto una figura diversa.» (Summa Theologiae, III, q. 54, a. 1 ad 3)

Le apparizioni in forme diverse sono atti pedagogici, per aiutare i discepoli a riconoscere il Risorto non più con i sensi, ma con la fede.

I discepoli di Emmaus (Luca 24,13-35) non lo riconoscono finché non spezza il pane, simbolo dell’Eucaristia.

Maria Maddalena (Giovanni 20,11-18) lo scambia per un giardiniere, ma lo riconosce solo quando Gesù la chiama per nome.

Questo mostra che non basta vedere fisicamente Gesù per credere, ma occorre essere illuminati interiormente dalla grazia e dalla fede.

Cristo non è semplicemente tornato in vita, come accadde a Lazzaro, ma è entrato in una nuova dimensione dell’esistenza. La diversità delle forme serve a sottolineare che il Risorto non appartiene più al mondo terreno, ma alla realtà divina.

Ogni apparizione del Risorto risponde a un bisogno interiore dei discepoli. Gesù si manifesta in modi differenti per toccare i cuori in maniera personale.

Si manifesta in forme diverse anche per far comprendere che la sua presenza risorta è universale e misteriosa, non confinata a un tempo o a un luogo, ma accessibile a tutti i credenti di ogni epoca, attraverso la fede, i sacramenti e la comunità.

La resurrezione di Cristo è modello e primizia della resurrezione dei giusti (1 Corinzi 15,20-23). Ma l’apostolo afferma che sarà questo corpo corruttibile a essere trasformato (1 Corinzi 15,51-54), non un altro. E così è stato per la resurrezione di Cristo.

Il sacrificio di Cristo è ordinato all’espiazione dei peccati e a trionfare sulla morte. Ma se non fosse risorto a una vita immortale il medesimo corpo caduto sulla croce, Cristo non avrebbe trionfato sulla morte.

PRINCIPATI

A cura di Giuseppe Monno

Nel vasto e complesso universo angelologico cristiano, i Principati occupano un posto significativo nella seconda triade della gerarchia celeste. Meno noti rispetto agli Arcangeli o ai Cherubini, i Principati svolgono però una funzione fondamentale nell’ordine della creazione divina, poiché sono i custodi dell’ordine cosmico e dei regni terreni, specialmente delle nazioni.

Il termine Principati deriva dal latino Principatus, traduzione del greco Archai, spesso incontrato nelle lettere paoline. San Paolo fa riferimento a questi spiriti celesti in più occasioni:

Efesini 1,21: «[Cristo è stato elevato] al di sopra di ogni Principato, Potestà, Potenza e Dominazione.»

Colossesi 1,16: «Poiché in lui furono create tutte le cose, nei cieli e sulla terra, le visibili e le invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà…»

Romani 8,38: «…né morte né vita, né Angeli né Principati…»

Sebbene questi passi non forniscano una descrizione esaustiva della funzione dei Principati, essi indicano l’esistenza di una struttura gerarchica del mondo spirituale, e il fatto che tali esseri hanno un’influenza concreta sul mondo creato.

Una delle trattazioni più influenti sull’ordine angelico è contenuta nel De Coelesti Hierarchia attribuito a Diogini (VI secolo), che stabilisce nove cori angelici suddivisi in tre triadi o gerarchie:

Serafini, Cherubini, Troni

Dominazioni, Virtù, Principati

Potestà, Arcangeli, Angeli

I Principati sono collocati al vertice della terza gerarchia, e Dionigi li descrive come coloro che presiedono alle comunità angeliche inferiori e guidano gli spiriti per l’adempimento delle volontà divine, specialmente in relazione all’amministrazione delle nazioni e delle istituzioni terrene. Essi sono i ministri del disegno divino, che trasmettono la luce di Dio agli angeli inferiori e quindi agli uomini.

Tra i Padri della Chiesa, Origene, San Gregorio Magno e Sant’Agostino riflettono, seppur indirettamente, sulla struttura angelica.

San Gregorio, in particolare, nei suoi Homiliae in Evangelia e nel Moralia in Iob, sottolinea il ruolo degli angeli superiori come messaggeri delle realtà più elevate e dei progetti divini sul mondo. I Principati, secondo Gregorio, rappresentano la legge e il governo spirituale delle realtà collettive, in particolare delle nazioni, delle Chiese e delle comunità.

Sant’Agostino, nelle sue opere De moribus Manichaeorum e De Civitate Dei (IV, 11–29; X, 12–13), distingue l’azione di Dio attraverso le intelligenze angeliche in modo ordinato e progressivo. Sebbene non nomini spesso i Principati, suggerisce l’idea che alcune realtà spirituali presiedano alle collettività umane.

Nella teologia medievale, in particolare con San Tommaso d’Aquino, la riflessione angelologica diventa altamente articolata. Nella Summa Theologiae (I, q. 108, a. 6, ad 3), Tommaso conferma e approfondisce la classificazione dionisiana. Egli afferma che i Principati sono incaricati di guidare le entità collettive, come nazioni o Chiese, e di esercitare un’autorità delegata da Dio sugli eventi storici.

I Principati si distinguono dalle Dominazioni (che esercitano comando più alto) e dalle Potestà (che combattono le influenze demoniache), poiché il loro compito è amministrativo e ordinativo: si tratta di intelligenze divine che armonizzano il libero arbitrio umano con il disegno provvidenziale.

Nella liturgia della Chiesa, i Principati non sono frequentemente menzionati singolarmente, ma sono inclusi nelle invocazioni angeliche e nelle litanie dei Santi.

Nella Liturgia delle Ore, specialmente nella festa dei Santi Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele (29 settembre), si fa riferimento alla presenza e al ministero delle schiere angeliche, e talvolta si richiama l’intera gerarchia celeste.

Alcune tradizioni orientali (soprattutto bizantine) dedicano attenzione specifica a ogni coro angelico, e i Principati sono visti come coloro che presiedono e proteggono le comunità politiche e civili, come città, regni, imperi: «O Principati celesti, voi che reggete i popoli e i regni sotto il comando del Sovrano divino, custodite con pace le città fedeli…»

Nell’arte cristiana, i Principati non hanno iconografie distinte come gli Arcangeli o i Serafini, ma vengono rappresentati secondo alcuni attributi simbolici:

Diademi o corone, a indicare l’autorità

Scettri o rotoli, segni del governo e della comunicazione della legge divina

Vesti regali, simili a quelle degli imperatori romani o bizantini

Talvolta accompagnati da scudi o insegne di nazioni

Nell’iconografia tardo-medievale e barocca, essi sono rappresentati in schiere ordinate, spesso alle spalle degli Arcangeli, come se sorvegliassero l’intera gerarchia inferiore.

Il coro angelico dei Principati rappresenta una dimensione fondamentale del disegno divino: il governo delle realtà collettive attraverso intelligenze spirituali al servizio dell’armonia cosmica. Custodi invisibili delle nazioni, strumenti della Provvidenza, essi incarnano la giustizia, l’ordine e la bellezza dell’autorità divina esercitata con misericordia.

La loro presenza silenziosa ma potente invita l’uomo a riflettere sul mistero dell’ordine e sulla relazione tra libertà umana e volontà divina, in una danza eterna tra cielo e terra.

POTESTÀ

A cura di Giuseppe Monno

Nel cuore della teologia angelologica cristiana, i nove cori angelici delineano una gerarchia celeste ordinata, riflesso dell’armonia divina. Le Potestà costituiscono il sesto coro, incastonate nella media gerarchia angelica, secondo la classificazione tradizionale attribuita a Dionigi.

Il termine «Potestà» deriva dal greco Exousíai, tradotto in latino come Potestates. Appare in più passaggi scritturali, sebbene non sempre con riferimento esplicito agli angeli. Tuttavia, la tradizione ha interpretato questi termini in senso angelologico, soprattutto in epoca patristica e medievale.

Efesini 1,21: «[Cristo è stato elevato] al di sopra di ogni Principato e Potestà, di ogni Potenza e Dominazione…».

Efesini 1,21; 6,12; Colossesi 1,16: «Poiché in lui sono state create tutte le cose… Troni, Dominazioni, Principati e Potestà: tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui».

Efesini 6,12: «La nostra battaglia non è contro carne e sangue, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo tenebroso…».

Sebbene alcuni di questi versetti si riferiscano a poteri spirituali negativi, la stessa struttura è stata adottata per indicare entità celesti ordinate nella creazione angelica.

Dionigi (VI secolo), nel suo trattato De Coelesti Hierarchia, stabilì tre triadi angeliche, ciascuna con tre ordini. Le Potestà si trovano nella seconda gerarchia o triade, tra le Dominazioni e le Virtù:

Seconda Gerarchia:

Dominazioni

Virtù

Potestà

Le Potestà, secondo Dionigi, hanno la funzione di regolare il flusso delle energie divine verso l’ordine inferiore. Sono garanti dell’equilibrio tra la volontà divina e il cosmo materiale, in particolare nel governo delle forze naturali e delle anime. Le Potestà sono spesso descritte come guerrieri spirituali incaricati di vigilare sui confini tra il regno divino e quello terreno.

La loro funzione è duplice:

Controllo e contenimento delle forze del male: impediscono che potenze demoniache oltrepassino i limiti imposti dalla Provvidenza.

Custodia del destino collettivo dell’umanità: si occupano delle nazioni, dei destini storici, e del mantenimento dell’ordine universale.

Mentre le Dominazioni esprimono la volontà divina in modo contemplativo e le Virtù ne eseguono l’efficacia attraverso miracoli e segni cosmici, le Potestà agiscono come regolatori e difensori della legge celeste.

Sant’Agostino (IV–V secolo) enumera alcuni degli ordini angelici: «Questi sono coloro che la Sacra Scrittura chiama Troni, Dominazioni, Principati, Potestà, Virtù, secondo le varie funzioni e gradi di merito.» (De Civitate Dei, X, 9)

San Gregorio Magno (VI–VII secolo) ricalca la gerarchia dionisiana: «Ci sono Angeli, Arcangeli, Troni, Dominazioni, Principati, Potestà, Virtù, Cherubini, Serafini. Ciascun nome designa un proprio ministero, non la natura ma l’ufficio.» (Homiliae in Evangelia II, 34,5)

Nella liturgia Romana, nel Prefazio II della Santa Messa (II formulario per le Messe degli Angeli), si menzionano gli ordini angelici, tra cui le Potestà:

«A te, che sei il Signore degli angeli, inneggia il creato con voci sempre nuove.
A te inneggiano tutte le schiere celesti:
i Troni e le Dominazioni,
le Potestà e i Serafini,
che gioiscono al tuo cospetto per sempre.»

La loro inclusione nel culto liturgico indica un riconoscimento della loro intercessione nel Mistero eucaristico.

Le rappresentazioni artistiche delle Potestà si sviluppano soprattutto nell’alto Medioevo e nel Rinascimento. Nell’iconografia cristiana le Potestà sono spesso raffigurate in armatura, con scudi, spade o insegne militari, simili ai Santi guerrieri come Michele. Spesso portano libri o pergamene, simbolo dell’ordine divino e della legge cosmica.

Autori come Luca Signorelli, nel ciclo dell’Apocalisse (Duomo di Orvieto), dipingono le Potestà come giovani gloriosi, luminosi, ma seri, intenti a contenere le forze del caos.

Nell’arte barocca, con l’enfasi sul dramma celeste, le Potestà sono presentate come protagonisti della battaglia spirituale, talvolta al fianco di San Michele Arcangelo, nella cacciata degli angeli ribelli.

Nella Summa Theologiae (I, q. 108, a. 6), San Tommaso (XIII secolo) ribadisce la distinzione tra i cori angelici, sottolineando come le Potestà abbiano autorità specifica: «Le Potestà hanno l’ufficio di contenere le forze contrarie, e di ordinare ciò che gli angeli inferiori devono eseguire.»

Ciò significa che le Potestà hanno una funzione di ordine e coordinamento rispetto agli angeli inferiori; sono i primi esecutori del governo divino sugli spiriti, nel senso che trasmettono e regolano l’esecuzione dei comandi divini; collaborano nel contenere il male (inteso come disturbo dell’ordine voluto da Dio), esercitando autorità e controllo sulle creature spirituali inferiori.

Alcuni mistici, come Santa Ildegarda di Bingen (XI–XII secolo) e la Beata Anna Katharina Emmerick (XVIII–XIX secolo), videro le Potestà in visioni come esseri «formati di fuoco e giustizia», posti come sentinelle tra i mondi.

Le Potestà, pur meno note di altri cori angelici come Serafini o Arcangeli, svolgono un ruolo essenziale nell’ordine celeste. Difensori della giustizia divina, garanti del confine tra luce e tenebra, sono l’immagine della potenza ordinata, non della violenza, e ci invitano a vivere una vita in armonia con la Legge eterna. Venerarli e riconoscerne la funzione è riscoprire l’intima architettura spirituale dell’universo.

VIRTÙ

A cura di Giuseppe Monno

Il mistero degli angeli, pur restando nella sua dimensione trascendente, ha trovato una nobile e articolata elaborazione nella tradizione cattolica. Tra i nove cori angelici identificati dalla patristica e dalla teologia medievale, il coro delle Virtù occupa un posto peculiare, ponte tra il mondo invisibile e quello visibile, segno della potenza divina che opera nella creazione e nella grazia.

Il termine «Virtù» è la traduzione del latino Virtutes, che a sua volta traduce il greco Dynaméis, reso più correttamente in «Potenze». Nel Nuovo Testamento leggiamo:

Efesini 1,21: «[Cristo è stato elevato] sopra ogni Principato e Autorità, Potenza (Dynámeôs) e Dominazione».

1 Pietro 3,22: «Gesù Cristo… è alla destra di Dio dopo essere salito al cielo, e gli sono sottomessi Angeli, Principati e Potenze (Dynaméôn)».

Questi testi indicano che le Virtù sono realtà personali, angeliche, sottomesse a Cristo, dotate di un ruolo cosmico e spirituale.

Secondo la gerarchia di Dionigi (VI secolo), sviluppata nel De Coelesti Hierarchia, le Virtù sono collocate nella seconda gerarchia o triade angelica, insieme a Dominazioni e Potestà. Esse presiedono alla mediazione del potere divino nell’ordine cosmico e nel corso della storia della salvezza.

Le Virtù sono angeli della forza divina operante. Sono associate alla miracolosa efficacia di Dio nella creazione, nella natura e nei miracoli. I teologi medievali, come San Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, I, q. 108), affermano che esse stabiliscono e regolano le leggi della natura; conducono le creature a realizzare la volontà divina; conferiscono forza ai miracoli; sostengono le anime nell’esercizio delle virtù morali (non solo per affinità nominale).

Nel De Coelesti Hierarchia, Diogini afferma che le Virtù sono gli spiriti che operano «le potenze divine e i miracoli», servendo da strumento del dinamismo creativo di Dio.

San Gregorio Magno (VI–VII secolo), nel Homiliae in Evangelia e nel Moralia in Iob (XXXII, 23), propone una lettura pastorale dei cori angelici. Le Virtù, dice, «ispirano forza e perseveranza ai santi», aiutando l’uomo nel combattimento spirituale.

Origene (III secolo) intravede nelle Potenze e Virtù delle categorie angeliche deputate al mantenimento dell’ordine cosmico (De Principiis, I, 5).

Sant’Agostino (IV–V secolo), pur non sistematizzando la gerarchia come Dionigi, riconosce la molteplicità degli spiriti angelici in relazione alla loro funzione, parlando della «forza delle Virtù celesti» (De Civitate Dei, X, 9).

Nelle memorie liturgiche dedicate agli Angeli, come quella dei Santi Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele (29 settembre), si fa eco al mistero dei cori angelici, tra cui le Virtù.

Nell’iconografia cristiana le Virtù sono raffigurate come angeli potenti, spesso con vesti fluttuanti e sguardi fissi in alto. In opere come La Cappella Sistina (Michelangelo) e l’iconografia bizantina (talora con sfere o globi di luce nelle mani, simbolo del potere divino).

Il culto delle Virtù angeliche offre un richiamo alla forza morale; una rinnovata fiducia nella Provvidenza attiva; un’intercessione potente per chi opera nel mondo naturale e scientifico, affinché la creazione sia custodita nella verità e nel bene.

Il coro delle Virtù manifesta una verità sempre attuale: Dio non solo ha creato il mondo, ma continua a sostenerlo con la sua forza, attraverso queste misteriose creature spirituali. Invocare le Virtù è chiedere di essere rafforzati nell’anima, sostenuti nel bene, protetti nei pericoli naturali e ispirati nella ricerca della verità.

DOMINAZIONI

A cura di Giuseppe Monno

Le Dominazioni costituiscono uno dei nove cori angelici secondo la gerarchia celeste cristiana. Sono parte della seconda triade di angeli, che si distingue per il governo del cosmo e delle creature inferiori. Sebbene meno noti al grande pubblico rispetto agli angeli e agli arcangeli, il loro ruolo nella tradizione cattolica è profondo, nobile e spiritualmente rilevante.

Il termine Dominazioni (dal greco «Kyriotêtes», letteralmente «Signorie») appare nelle Lettere paoline:

Colossesi 1,16:
«Poiché in lui sono state create tutte le cose, nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà; tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui.»

Efesini 1,21:
«…al di sopra di ogni Principato e Autorità, di ogni Potenza e Dominazione, e di ogni nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro.»

Questi passaggi attestano l’esistenza di una gerarchia celeste che partecipa al governo del creato, con ruoli distinti ma ordinati secondo un disegno divino.

Secondo la Gerarchia Celeste di Dionigi (VI secolo), le Dominazioni appartengono alla seconda triade, accanto alle Virtù e alle Potestà:

Prima triade: Serafini, Cherubini, Troni (più vicini a Dio).

Seconda triade: Dominazioni, Virtù, Potestà (mediatori cosmici).

Terza triade: Principati, Arcangeli, Angeli (più vicini all’uomo).

Le Dominazioni ricevono il loro nome dal loro compito principale: dominare non con autorità tirannica, ma con il compito spirituale di regolare le gerarchie inferiori e vegliare sul giusto ordine dell’universo.

Secondo Tommaso d’Aquino:

«Le Dominazioni muovono gli spiriti inferiori a ciò che deve essere compiuto, e questo è proprio del dominio… di per sé non esercitano un’azione propria sulle creature corporee, ma solo sugli spiriti inferiori, dando loro istruzioni su ciò che devono compiere.» (Summa Theologiae, I, q. 108)

Essi riflettono la signoria di Dio (Dominus) e partecipano del Suo potere organizzatore e stabilizzatore.

Padri della Chiesa come Sant’Agostino e San Gregorio Magno riconobbero l’esistenza delle Dominazioni come parte dell’armonia celeste.

Sant’Agostino non distingue rigidamente tra i cori angelici, ma riconosce l’esistenza di gradi tra gli spiriti celesti, in base alla loro vicinanza a Dio (De Civitate Dei, XI, 9).

San Gregorio Magno offre una delle prime distinzioni sistematiche tra gli ordini angelici e attribuisce alle Dominazioni la funzione di trasmettere ai cori inferiori la direzione dell’ordine divino (Homiliae in Evangelia, 34).

Le Dominazioni non hanno un culto liturgico specifico come gli Arcangeli, ma la liturgia li menziona implicitamente nei prefazi angelici delle Messe solenni. La loro invisibile ma costante presenza nella liturgia celeste è presupposta e venerata.

La devozione alle Dominazioni non è mai stata particolarmente sviluppata tra i fedeli, per la loro natura più astratta e remota rispetto agli Angeli Custodi o a San Michele Arcangelo. Tuttavia, alcune correnti mistiche medievali, come quelle legate a Santa Ildegarda di Bingen (monaca benedettina) o alle visioni di Santa Brigida di Svezia (fondatrice dell’Ordine del Santissimo Salvatore), parlano di visioni di cori angelici ordinati secondo funzione e armonia celestiale.

Le rappresentazioni artistiche delle Dominazioni sono rare ma presenti in contesti iconografici di tipo gerarchico, soprattutto:

Miniature medievali

Affreschi di epoca barocca

Pittori come Luca Giordano e Rubens

Simbologia delle Dominazioni:

Color porpora o oro, simboli di autorità e regno spirituale.

Scettro, globo, corona, segni del loro compito di reggere e ordinare.

Le virtù a loro associate sono la giustizia, l’obbedienza e l’ordine. Le Dominazioni ispirano una spiritualità fondata sull’ordine, la sottomissione alla volontà divina e la contemplazione del disegno di Dio. Esse rappresentano l’equilibrio tra libertà e autorità, tra iniziativa e obbedienza.

Le Dominazioni, pur rimanendo nella sfera del mistero, sono parte integrante della dottrina cattolica sugli angeli. Esse incarnano il principio della signoria divina e della giustizia spirituale. Attraverso lo studio delle Scritture, l’elaborazione dei Padri, la sistematizzazione scolastica e l’arte sacra, il loro ruolo si delinea come quello di strumenti attraverso cui Dio mantiene l’armonia dell’universo, dando un esempio di ordine, sapienza e servizio per tutta la Chiesa militante.

TRONI

A cura di Giuseppe Monno

I Troni occupano un posto eminente nella teologia angelologica cattolica, essendo collocati nella prima gerarchia celeste secondo la classificazione Dionigi (VI secolo). Questi spiriti purissimi sono considerati tra i più prossimi al mistero ineffabile di Dio, strumenti della Sua giustizia e sapienza, e portatori del Suo trono.

La Sacra Scrittura non parla in modo esteso e sistematico dei Troni come categoria angelica, ma ci offre accenni importanti:

Lettera ai Colossesi 1,16

«Per mezzo di lui [Cristo] sono state create tutte le cose… siano esse Troni, Dominazioni, Principati o Potestà.»

In questo passo, San Paolo enumera i Troni tra le realtà celesti create da e per Cristo. Il termine greco usato è Thrónoi, traducibile anche come «sedie regali», ma nel contesto teologico assume un valore angelologico.

Ezechiele 1,26-28; 10,1

La visione del carro divino (la «Merkavah») presenta un’immagine che sarà riletta in chiave angelologica:

«Al di sopra del firmamento… vi era qualcosa di simile a un trono… e su questa figura vi era un essere simile a un uomo.»

I Padri hanno letto in queste visioni il ruolo dei Troni come portatori del trono di Dio.

Secondo Dionigi (De Coelesti Hierarchia), i Troni fanno parte della prima gerarchia o triade, insieme a Serafini e Cherubini. Questa triade contempla Dio direttamente:

Serafini: l’amore ardente.

Cherubini: la pienezza della conoscenza.

Troni: la stabilità della giustizia divina.

Essi sono simbolo di immutabilità, sottomissione perfetta alla volontà divina e canali della sapienza ordinatrice di Dio.

Nel Summa Theologiae (I, q. 108), San Tommaso (XIII secolo) approfondisce il ruolo delle gerarchie angeliche. I Troni sono associati alla contemplazione delle decisioni divine riguardo alla creazione. Eseguono la giustizia divina, con equità e distacco dalle passioni. Sono «sedes Dei», ossia strumenti della manifestazione del potere divino.

Nel suo Adversus haereses (II, 30, 5-6), Ireneo di Lione (II secolo) descrive la varietà delle creature spirituali, vedendo nei Troni un grado angelico dotato di particolare stabilità e purezza.

Sant’Agostino nel De Civitate Dei distingue tra angeli in funzione del servizio: i Troni sarebbero quelli più predisposti a ricevere Dio in sé, come sede viva della sua presenza: «Il trono è ciò che regge la presenza di un re: così i Troni reggono, nel loro spirito, la presenza di Dio stesso.» (De Civitate Dei, X, 13)

Benché i Troni non siano oggetto di culto liturgico autonomo, sono menzionati in vari testi della tradizione:

Nell’Inno dei Cherubini (Cherubikon), si parla dei cori angelici come servitori del mistero eucaristico, alludendo anche ai Troni come portatori della gloria divina.

Nella liturgia romana, durante il prefazio, si cita:

«Per mezzo di lui lodano la tua maestà le Virtù dei cieli, adorano la tua gloria le Dominazioni, al tuo comando ubbidiscono i Potestà. Al tuo cospetto stanno i Cieli, i Troni, le Dominazioni…»

Questa menzione rivela la loro costante presenza nella liturgia celeste.

Nell’iconografia cristiana i Troni sono rappresentati in modi diversi:

Ruote infuocate (influenzati dalla visione di Ezechiele).

Troni vuoti o con luce: simbolo della presenza divina.

Figure angeliche con dischi o cerchi dorati incorporati nel corpo o dietro la testa.

Nella Divina Commedia, Dante (Paradiso, Canto XXIX) li colloca nel cielo cristallino, contemplanti la giustizia di Dio. Beato Angelico, nella sua arte mistica, li dipinge in abiti celesti, sobri e solenni, in posizione di servizio.

La dottrina delle nove gerarchie angeliche viene sistematizzata da Dionigi nel VI secolo, ma trova echi precedenti nella tradizione giudaica, in particolare nell’angelologia dell’apocalittica ebraica (p. es. Libro di Enoch).

La teologia scolastica medievale assorbe la classificazione di Diogini, integrandola con la metafisica aristotelica (in San Tommaso e San Bonaventura). I Troni assumono una funzione intermedia tra la pura contemplazione e la trasmissione dell’ordine divino verso le gerarchie inferiori.

I Troni sono oggi raramente trattati nel catechismo comune, ma hanno un significato spirituale profondo per la vita del cristiano:

Simbolizzano la stabilità nella fede: come troni saldi, sono esempio per chi desidera fondare la propria vita su Dio.

Rimandano all’obbedienza perfetta: si fanno «sede» della volontà di Dio, invitando il credente a fare altrettanto.

Ricordano la giustizia divina: non arbitraria, ma stabile, contemplativa, ordinata.

I Troni, pur essendo tra le entità celesti meno conosciute nel culto popolare, offrono uno spunto ricchissimo per la riflessione teologica, liturgica e spirituale. Come creature di luce che portano Dio nel loro essere, invitano l’uomo a divenire sede viva della presenza divina, giusto e stabile nella sua vocazione cristiana.

CHERUBINI

A cura di Giuseppe Monno

I Cherubini, misteriose creature celesti, popolano le Scritture e la Tradizione della Chiesa con la potenza del simbolo e la profondità del mistero. Secondi nella gerarchia angelica secondo Dionigi (VI secolo), essi sono custodi del sacro, ministri della sapienza divina, e testimoni silenziosi della gloria di Dio.

La figura dei Cherubini emerge fin dalle prime pagine della Genesi: «Dio pose i Cherubini a oriente del giardino di Eden e la fiamma della spada folgorante per custodire la via all’albero della vita.» (Genesi 3,24).

Essi sono qui presentati come custodi del sacro, preposti alla difesa dell’accesso al Paradiso perduto. In Esodo 25,18-22, i Cherubini sono scolpiti sull’Arca dell’Alleanza: «Farai due cherubini d’oro, li farai lavorati a martello sulle due estremità del propiziatorio.»

Nel libro di Ezechiele, i Cherubini appaiono in visioni teofaniche complesse, caratterizzati da forme multiple: «Ognuno aveva quattro facce e ognuno quattro ali, e sotto le loro ali vi erano mani d’uomo» (Ezechiele 1,6).

Nel Nuovo Testamento, i Cherubini non sono menzionati esplicitamente, ma la Lettera agli Ebrei ricorda la loro presenza nel Santo dei Santi (Ebrei 9,5). Il Libro dell’Apocalisse, pur non nominandoli direttamente, presenta esseri viventi con molteplici ali e occhi (Apocalisse 4,6-8), probabilmente una fusione di immagini cherubiche e serafiche.

La teologia cattolica, influenzata da Diogini (De Coelesti Hierarchia), colloca i Cherubini nella prima triade angelica, insieme ai Serafini e ai Troni. Essi rappresentano:

La Pienezza della Conoscenza di Dio: i Cherubini sono illuminati e illuminanti, trasmettendo agli ordini inferiori la sapienza divina.

Sono i custodi della gloria, vigilano sui confini tra il cielo e la terra.

San Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologiae (I, q. 108), conferma la posizione dei Cherubini nella gerarchia celeste. Egli sottolinea come la loro etimologia – da «kerub», che potrebbe significare «pienezza di conoscenza» o «vicino al Signore» – alluda alla loro funzione di contemplativi perfetti della gloria divina.

Padri della Chiesa come Origene, Gregorio di Nissa, Agostino e Gregorio Magno, hanno meditato sulla figura dei Cherubini:

Origene (III secolo) li interpreta come simboli dell’intelligenza spirituale e delle anime elevate.

Sant’Agostino (IV–V secolo) nel De Civitate Dei li collega alla conoscenza della verità eterna.

San Gregorio Magno (VI–VII secolo), nella Moralia in Iob, propone una lettura pastorale e mistica, in cui i Cherubini rappresentano i dottori della Chiesa.

Nel rito bizantino si canta l’Inno Cherubico durante l’Offertorio: «Noi che misticamente rappresentiamo i Cherubini…»

Questo indica la partecipazione dell’assemblea al culto celeste. L’inno unisce la liturgia terrestre con quella celeste.

Nel Prefazio delle Messe solenni si proclama: «Per mezzo di Lui, si rallegrano gli Angeli, adorano le Dominazioni, tremano le Potestà… ti acclamano uniti nell’esultanza i Cherubini e i Serafini…»

Questa presenza angelica sottolinea la dimensione celeste della liturgia eucaristica.

I Cherubini sono spesso rappresentati come creature alate intorno al trono di Dio. Nell’arte bizantina, prendono la forma di figure con molte ali e volti multipli. Nelle basiliche paleocristiane (p. es. Santa Maria Maggiore a Roma), appaiono accanto al trono dell’Agnello.

Durante i periodi romanico (XI–XII secolo) e gotico (XII–XIV secolo), sono raffigurati con volti infantili (simboleggiando innocenza e luce intellettuale), spesso confusi con i Serafini o com angeli generici.

L’arte barocca popolarizza la figura del putto alato, che, pur teologicamente impreciso, è una derivazione stilizzata dei Cherubini. I putti cherubini decorano volte, altari e cupole (p. es. in Bernini, Rubens, Baciccio, Pozzo), rappresentando la gloria celeste in modo accessibile e affettivo.

I Cherubini simboleggiano:

Contemplazione perfetta: la conoscenza infusa da Dio.

Vigilanza sul mistero: essi sorvegliano i confini del sacro.

Luce intellettuale: la loro funzione è illuminare le creature inferiori.

Presenza misteriosa: sono simboli viventi dell’invisibile.

In ambito spirituale, la via della conoscenza mistica (via illuminativa) è spesso associata alla sfera cherubica.

I Cherubini, nella tradizione cattolica, rappresentano l’unione fra intelligenza divina e custodia del mistero, sapienza luminosa e silenziosa adorazione. Essi ci insegnano che la vera conoscenza parte dal timore di Dio e culmina nella contemplazione amorosa della Sua gloria.

SERAFINI

A cura di Giuseppe Monno

Nel cuore della visione cristiana dell’ordine celeste, i Serafini occupano il vertice della gerarchia angelica. Essi sono spiriti purissimi, ardenti d’amore per Dio, e custodi del mistero divino. La Chiesa cattolica, rifacendosi alla Scrittura, alla teologia e alla tradizione patristica, li venera come esseri sublimi che, nella liturgia celeste, eternamente acclamano la gloria dell’Altissimo.

La fonte principale sulla figura dei Serafini è la visione di Isaia:

«Io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato… Sopra di lui stavano dei Serafini: ognuno aveva sei ali; con due si copriva il volto, con due si copriva i piedi e con due volava. E l’uno gridava all’altro: Santo, Santo, Santo è il Signore degli eserciti, tutta la terra è piena della sua gloria.» (Isaia 6,1-3)

I Serafini sono qui raffigurati come spiriti vicinissimi al trono di Dio, ardenti nel culto e nel servizio. La loro triplice acclamazione ha influenzato profondamente la liturgia cristiana (cf. Sanctus nella Santa Messa).

Sebbene il nome Serafino appaia solo in Isaia, il loro ruolo può essere accostato agli esseri celesti che circondano Dio nell’Apocalisse (4,6-8), spesso identificati nella tradizione con i Serafini.

Secondo la teologia di Dionigi (VI secolo), accolta da San Tommaso d’Aquino (XIII secolo), i Serafini occupano il posto più alto della prima triade angelica:

Prima triade: Serafini, Cherubini, Troni – adorazione e contemplazione di Dio.

Seconda triade: Dominazioni, Virtù, Potestà – ordine e governo dell’universo.

Terza triade: Principati, Arcangeli, Angeli – interazione diretta con l’uomo.

San Tommaso scrive:

«I Serafini sono detti così per l’ardore della carità… Al primo ordine si addice la pienezza dell’amore.» (Summa Theologiae, I, q. 108, a. 5)

Il termine Serafino deriva dall’ebraico Saraf («ardere», «bruciare»): essi sono quindi «gli ardenti». Questa etimologia indica il fuoco dell’amore che li consuma, ma anche la luce purificatrice della loro presenza. Le sei ali indicano l’umiltà (ali per coprirsi il volto), la riverenza (per coprire i piedi) e la prontezza all’obbedienza (per volare).

Sant’Agostino (IV–V secolo) distingue tra angeli come funzione (messaggeri) e come natura (spiriti). I Serafini, pur non essendo normalmente inviati agli uomini, servono Dio in modo eccelso:

«Gli Angeli sono tutti spiriti, ma non tutti gli spiriti sono Serafini.» (De Civitate Dei, XI, 9)

San Gregorio Magno:

«Sono chiamati Serafini coloro che, accesi dall’ardore della carità, mentre contemplano Dio, si distaccano da ogni desiderio terreno.» (Moralia in Iob, XXII, 23)

Origene collega i Serafini al Verbo e all’opera della purificazione del profeta Isaia. In una lettura mistica, i Serafini sono simbolo dell’intelletto che contempla Dio e ne riflette il fuoco.

Il Sanctus, recitato durante la preghiera eucaristica, deriva direttamente dalla visione di Isaia. Nella tradizione orientale e occidentale, è attribuito principalmente ai Serafini.

Nella liturgia bizantina si fa menzione esplicita dei Serafini nel Trisagio e nella Grande Dossologia. Nella Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo, si canta:

«Inno dei Serafini, che incessantemente glorificano Dio…»

Nell’iconografia cristiana, i Serafini sono rappresentati con sei ali, spesso rossi o fiammeggianti, talvolta con occhi sulle ali (simbolo di sapienza e vigilanza). Le opere più celebri sono quelle di Giotto e Beato Angelico, che li raffigurano nelle scene celesti come spiriti purpurei in estasi, e Michelangelo e Raffaello che li inseriscono tra i cori angelici nei cieli della Cappella Sistina.

Nel Medioevo, i Serafini venivano ricamati nei paramenti sacri o nelle miniature per indicare la presenza del divino e la purezza dell’officiante.

San Francesco d’Assisi ricevette le stimmate dopo una visione di un Serafino crocifisso (Monte della Verna, 1224). Il Serafino qui appare come mediatore della trasformazione mistica: l’amore ardente conduce all’unione con Cristo crocifisso.

Nel 1577 la mistica Santa Teresa d’Avila descrive gradi di orazione che culminano in una comunione con Dio alla maniera dei Serafini: «senza parole, in fuoco silenzioso.» (Il Castello interiore)

I Serafini, nella fede cattolica, non sono solo creature angeliche remote, ma immagini della vocazione ultima dell’anima: contemplare, adorare, amare Dio con tutto l’essere. Essi ricordano che il fine della vita cristiana è l’unione ardente con l’Amore increato. La teologia, la liturgia e l’arte li custodiscono come segno del fuoco divino che, un giorno, trasfigurerà i cuori di tutti i Santi.

O infiammati Serafini, ottenetemi un amore ardente per Dio.

TRADUCIANESIMO

A cura di Giuseppe Monno

Il traducianesimo (dal latino traducere, “trasmettere”) è la dottrina secondo cui l’anima umana è generata dai genitori insieme al corpo, trasmessa per via naturale nell’atto della procreazione. Questa teoria si oppone alla dottrina della creazione immediata dell’anima, sostenuta dalla Chiesa cattolica.

Il traducianesimo fu proposto in ambito cristiano da alcuni Padri della Chiesa per risolvere questioni legate alla trasmissione del peccato originale. Il principale sostenitore della dottrina fu Tertulliano (II–III secolo), che la formulò come coerente con la sua visione materialistica dell’anima: «L’anima è trapiantata con la carne.» (De Anima, 27).

Origene (II–III secolo) rifiutò il traducianesimo e abbracciò una forma di preesistenza delle anime, dottrina poi condannata. Sottolineava che l’anima non nasce col corpo, ma gli è anteriormente unita: «Le anime sono create da Dio prima della loro unione al corpo» (De Principiis, II, 9).

Gregorio di Nissa (IV secolo) fu  incline alla creazione diretta dell’anima: «Come può qualcosa di spirituale e invisibile derivare dalla carne? L’anima ha una causa superiore» (De Hominis Opificio, 29).

Sant’Agostino (IV–V secolo) rimase incerto sulla questione: «Ignoro in qual modo si trasmetta l’anima: per trasmissione o per infusione. Tuttavia non nego che Dio crei ogni anima.» (De Genesi ad litteram, X, 23, 39).

San Girolamo (IV–V secolo) rifiutava esplicitamente il traducianesimo: «Noi non sosteniamo, come Tertulliano, che le anime si trasmettono, ma che Dio le crea nel momento della nascita» (Epistolae, 124, 1, ad Marcellam).

La dottrina del traducianesimo fu sempre guardata con sospetto, soprattutto in Occidente, per gravi implicazioni teologiche:

1. Contraddice la spiritualità dell’anima, la quale, essendo immateriale, non può essere prodotta da un atto materiale come la generazione corporea.

2. Implica la corruttibilità dell’anima, come il corpo, contro la sua natura immortale.

3. Mina la responsabilità personale, poiché implica una trasmissione quasi biologica del peccato originale e dell’anima stessa.

4. Limita l’azione creatrice di Dio, subordinandola alla volontà dei genitori.

La Chiesa cattolica afferma con chiarezza la creazione immediata e diretta dell’anima razionale da parte di Dio, in ogni essere umano. Tale dottrina fu definita dogmaticamente dal Concilio Lateranense V (1513), sotto Papa Leone X:

«L’anima razionale o intellettiva non è prodotta dai genitori ma viene infusa da Dio immediatamente ed è immortale.» (Bolla Apostolici Regiminis)

Pio XI (1950) nell’enciclica Humani Generis, 36: «Per quanto riguarda l’anima, la Chiesa insegna che essa è creata immediatamente da Dio.»

San Tommaso d’Aquino (XIII secolo) articola con chiarezza il rifiuto del traducianesimo. Egli dimostra che l’anima, essendo forma sostanziale immateriale, non può derivare da un principio materiale:

«L’anima razionale non può essere generata dai genitori: essa viene creata direttamente da Dio» (Summa Theologiae, I, q. 118, a. 2).

Per San Tommaso, l’atto creativo dell’anima è un’espressione della volontà divina e avviene nel momento della formazione del corpo umano idoneo a riceverla.

San Bonaventura (XIII secolo) affermava: «La razionale anima non è prodotta dai genitori, ma è creata immediatamente da Dio.» (Commentaria in II Sententiarum, Dist. 18, a. 2, q. 2)

Duns Scoto (XIII–XIV secolo) sosteneva che l’anima razionale non può essere prodotta dai genitori, poiché è una sostanza spirituale, semplice e incorporea. Non essendo composta, non può essere trasmessa per generazione materiale, ma deve essere creata immediatamente da Dio (cfr. Ordinatio II, dist. 18, q. 2).

Durante la Riforma (XVI secolo), alcuni protestanti, come Martin Lutero, si mostrarono favorevoli al traducianesimo, per coerenza con la dottrina del peccato originale come eredità biologica (The Oxford Encyclopedia of the Reformation, 1996). Tuttavia, anche in ambito protestante, la dottrina restò controversa. In risposta, la teologia cattolica post-tridentina riaffermò con maggiore decisione la creazione immediata dell’anima.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) mantiene questa dottrina:

«La Chiesa insegna che ogni anima spirituale è creata da Dio – non è ‘prodotta’ dai genitori – ed è immortale.» (CCC 366)

Il traducianesimo è incompatibile con la dottrina cattolica sull’anima. La fede cristiana proclama che ogni anima è creata immediatamente da Dio, dotata di spiritualità, immortalità e unicità, e che essa non può essere trasmessa né generata da alcuna sostanza materiale.

EMANAZIONISMO

A cura di Giuseppe Monno

L’emanazionismo è una concezione metafisica secondo cui tutte le cose esistenti provincono da Dio per necessaria emanazione, come la luce emana dal sole. In questa visione, il mondo e le anime non sono creati dal nulla, ma sono derivazioni necessarie dell’essenza divina. Questa dottrina nega la distinzione fondamentale tra Creatore e creatura, affermata dalla rivelazione cristiana.

In Platone (V–IV secolo a.C.) e ancor più in Plotino (III secolo d.C.), il mondo deriva per gradi da un principio supremo:

L’Uno Nous (intelletto) Anima del mondo Materia.

Questo processo è necessario, non libero. Non c’è creazione ex nihilo (dal nulla).

Molti sistemi gnostici (II–III secolo d.C.) sostenevano una catena di eoni emanati da un Dio sconosciuto. Il mondo materiale era visto come decaduto, creato da un demiurgo inferiore. L’anima umana, secondo loro, era una scintilla divina, ma imprigionata nella materia.

In alcuni autori medievali (come Amalrico di Bène o Davide di Dinant), si trovano affermazioni assimilabili all’emanazionismo: Dio e il creato sono una stessa sostanza.

La Chiesa cattolica ha sempre respinto l’emanazionismo per le seguenti ragioni:

1. Creazione libera, non necessaria

2. Dio non è costretto a creare: la creazione è un atto di volontà libera, non un effetto necessario della sua natura.

Il Concilio Lateranense IV (1215) affermò:

«Uno solo è il vero Dio… creatore di tutte le cose visibili e invisibili, che dalla sua onnipotenza simultaneamente dal nulla creò entrambe le creature, spirituale e corporale.»

La creazione dal nulla (ex nihilo) è dogma di fede, affermato sia nei Concili che nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC 296):

«La fede nella creazione dal nulla è attestata nella Scrittura come nella Tradizione.»

L’emanazionismo implica che le creature partecipino dell’essenza divina, mentre nella dottrina cattolica Dio trascende radicalmente la creazione.

Sant’Ireneo di Lione (II secolo), contro gli gnostici insiste sul fatto che Dio ha creato liberamente il mondo: «Non perché avesse bisogno di esseri umani li ha creati, ma perché li ama…» (Adversus haereses, IV, 14)

Sant’Agostino (IV–V secolo) rigetta ogni concezione che implichi una generazione necessaria del mondo da Dio: «Dio ha creato il mondo dal nulla, non perché fosse costretto, ma perché lo volle.» (De Genesi ad litteram, II, 9, 20)

San Tommaso d’Aquino (XIII secolo) distingue nettamente tra processioni divine interne alla Trinità e la creazione, che è un atto volontario e libero: «Creare è propriamente fare qualche cosa dal nulla, che appartiene a Dio solo.» (Summa Theologiae, I, q. 45, a. 5)

La Sacra Scrittura esclude l’emanazionismo:

Genesi 1,1
«In principio Dio creò il cielo e la terra.»

Sapienza 1,14
«Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza»

Siracide 18,1
«Colui che vive per sempre ha creato l’intero universo.»

Isaia 44,24
«Sono io, il Signore, che ho fatto tutto,
che ho spiegato i cieli da solo,
ho disteso la terra; chi era con me?»

Salmi 85,9
«Tutti i popoli che hai creato verranno
e si prostreranno davanti a te, o Signore,
per dare gloria al tuo nome.»

L’eresia emanazionista nega la libertà di Dio: Se Dio crea per necessità, non è libero: diventa parte del mondo, o ne è schiavo.

Compromette la trascendenza divina, implica forme di panteismo, e minaccia la salvezza. Se l’uomo è solo un’emanazione di Dio, non ha bisogno di essere redento, ma solo di ritornare all’Uno: questo distrugge il nucleo del cristianesimo (Incarnazione, Croce, Grazia).

L’emanazionismo rappresenta un grave errore dottrinale, poiché sostituisce la creazione libera e personale con una necessaria emanazione impersonale; cancella la distanza ontologica tra Dio e creatura, aprendo la strada al panteismo; distrugge la visione cristiana della salvezza, che parte da una reale alterità tra Dio e l’uomo, redenta in Cristo.

La fede cristiana confessa un Dio che crea liberamente per amore, non perché costretto dalla propria essenza.

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