GESÙ CRISTO: L’ALFA E OMEGA

A cura di Giuseppe Monno

Apocalisse 1,8
“Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente.”

Apocalisse 22,13
“Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine.”

Apocalisse 1,8 è uno dei versetti più solenni e maestosi dell’intera Scrittura, dove il titolo divino “Alfa e Omega” (cioè “principio e fine”) è applicato a Dio stesso. Ma nel contesto dell’Apocalisse, questo titolo viene poi ripreso da Gesù Cristo (in 22,13), mostrando la piena identità divina tra il Padre e il Figlio.

Alfa (Α) e Omega (Ω) sono la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco. Indicano totalità, pienezza, principio e fine di tutto. È un’espressione equivalente a quella di Isaia 44,6 (LXX): “Io sono il primo e l’ultimo, e fuori di me non c’è Dio.”

In ambito biblico Dio è l’origine e il compimento di ogni cosa, l’eterno Signore del tempo e della storia. Quindi: “Alfa e Omega” significa eternità e totale dominio su tutta la realtà.

In Apocalisse 1,8, “Alfa e Omega” e i titoli successivi (“Colui che è… l’Onnipotente”) esprimono l’identità eterna, trascendente e assoluta di Dio. Ma nel contesto dell’Apocalisse, queste stesse parole sono applicate anche a Gesù Cristo:

Apocalisse 22,12-13
“Ecco, io vengo presto… Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine.”

Cristo si auto-identifica con gli stessi titoli divini del Padre. L’Apocalisse non distingue tra i titoli divini del Padre e del Figlio, ma entrambi posseggono la stessa identità divina.

Nel linguaggio apocalittico, il Padre e il Figlio condividono gli stessi attributi divini. Cristo non è “dio minore” o “creatura glorificata”, ma Dio stesso, Signore del tempo e della storia.

In Apocalisse 1,8 parla “il Signore Dio”, ma già in 1,17-18 e 22,13 le stesse parole vengono dette da Cristo. Ciò riflette la fede trinitaria:

un solo Dio,

tre Persone (Padre e Figlio e Spirito Santo),

la stessa divinità, potenza e gloria.

Cristo è “Alfa e Omega”, Principio e Fine della creazione, della redenzione e della storia umana. Tutto trova origine e compimento in Lui (cfr. Colossesi 1,16-17).

Egli è “Colui che viene” (“erchomenos”). Il verbo presente sottolinea la venuta continua di Cristo:

nella storia (Incarnazione),

nella Chiesa (Eucaristia, grazia),

e alla fine dei tempi (Parusia).

Secondo sant’Ireneo di Lione (Adversus Haereses, IV, 6, 5):

“Colui che è chiamato Alfa e Omega, principio e fine, è il Figlio di Dio, per mezzo del quale tutto fu fatto e che è Signore di tutte le cose.”

Mentre sant’Agostino (De Civitate Dei, XI,6):

“Cristo è detto Alfa e Omega perché in Lui tutto inizia e tutto si compie; nulla esiste fuori della Sua eternità.”

In Apocalisse 1,8 e 22,13, il titolo “Alfa e Omega” rivela che Gesù Cristo è l’Eterno, l’Onnipotente, Dio stesso fatto uomo.
Egli è il principio di tutto ciò che esiste e il compimento finale di tutta la creazione:

“Tutto è stato creato per mezzo di Lui e in vista di Lui… Tutto in Lui sussiste” (cfr. Colossesi 1,16-17).

GESÙ CRISTO: DIO DA DIO

A cura di Giuseppe Monno

Ebrei 1,3
“Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli”

Ebrei 1,8
“del Figlio invece afferma: Il tuo trono, Dio, sta in eterno e: Scettro giusto è lo scettro del tuo regno”

Il primo capitolo della Lettera agli Ebrei è tra i più solenni e teologicamente ricchi del Nuovo Testamento. Nei versetti 3 e 8, l’autore presenta Gesù Cristo come pienamente divino, immagine perfetta del Padre, Creatore, e degno di adorazione.

Ebrei 1,3 e 1,8 costituiscono una professione cristologica altissima: Gesù Cristo è il Figlio eterno di Dio, irradiazione della Sua gloria, immagine perfetta della Sua sostanza, sostentatore e redentore del mondo, Re eterno il cui trono è eterno.

Cristo è “irradiazione” (“apaugasma”), luce che emana da una fonte luminosa (come il raggio dal sole). Indica che Cristo non è una semplice riflessione della gloria divina, ma ne è l’irradiazione naturale e consustanziale. Come il raggio è della stessa natura del sole, così il Figlio è della stessa natura del Padre: “Dio da Dio, Luce da Luce” (Simbolo Niceno).

È l’impronta (“charakter”) perfetta della sostanza (“hypostasis”) o realtà divina del Padre, non una copia creata. È della stessa sostanza (“homoousios”, come affermerà il Concilio di Nicea, 325).

Sostiene tutte le cose con la sua potenza divina. Il verbo “pherōn” è al presente e significa azione continua: “Tutto sussiste in lui” (cfr. Colossesi 1,17).

L’autore unisce in un solo versetto Cristo creatore, sostentatore e redentore: prerogative divine.

L’espressione biblica “siede alla destra di Dio”, significa partecipazione al potere e alla gloria del Padre. Il Figlio siede alla destra della Maestà, cioè condivide la regalità divina.

Cristo è Dio vero, “irradiazione della gloria del Padre” e “impronta della sua sostanza”. Non è un essere creato o inferiore, ma consustanziale al Padre.

Svolge funzioni che spettano solo a Dio: crea e sostiene l’universo, purifica dai peccati, siede alla destra della Maestà divina.

Ebrei 1,3 è una delle più alte professioni di fede nella divinità di Gesù Cristo.

Nel v. 8 l’autore cita il Salmo 45 (44), applicandolo direttamente a Cristo. L’autore rivolge a Cristo il titolo di Dio.

Contrappone ciò che è detto degli angeli (v. 7) a ciò che è detto del Figlio (v. 8): agli angeli si parla di servizio; al Figlio si dice: “Il tuo trono, o Dio, sta in eterno”.

Il versetto successivo (v. 9) continua: “Perciò Dio, il tuo Dio, ti ha unto…”. Chiaramente due persone divine, non un’identificazione simbolica. Quindi l’autore afferma apertamente che il Figlio è chiamato “Dio” (“ho theos”).

Il Padre stesso parla al Figlio e lo chiama “Dio”. Il Figlio siede su un trono eterno, ha uno scettro di giustizia, e regna per sempre: attributi che spettano solo a Dio.

Insieme al v. 3, il v. 8 è una testimonianza esplicita della divinità di Cristo. Il Padre è Dio, il Figlio è Dio, ma il Figlio non è il Padre. Qui è implicita la dottrina trinitaria: distinzione delle persone, unità di natura.

Questi versetti sono centrali nella dottrina cattolica: confermano la divinità consustanziale del Figlio, fondano la fede nella Trinità, e mostrano che Cristo è Dio incarnato, Signore e Re eterno.

IN CRISTO ABITA CORPORALMENTE TUTTA LA PIENEZZA DELLA DIVINITÀ

A cura di Giuseppe Monno

Colossesi 2,9
“Perché in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità.”

Questo è uno dei versetti più chiari e diretti del Nuovo Testamento nel proclamare la piena divinità di Gesù Cristo. Paolo afferma che in lui risiede tutta la realtà divina.

L’apostolo fa uso del verbo “katoikei” (“abita”, “risiede”, “dimora”), presente indicativo che significa azione continua e permanente, non temporanea. La divinità non “passa” in Cristo, dimora stabilmente in Lui.

Non si tratta di una parte o un riflesso della divinità, ma la totalità assoluta: “pan to pleroma” (“tutta la pienezza”, “totalità”, “completezza”).

Paolo utilizza un termine raro e molto importante: “theotes”, che significa la natura divina in senso pieno, l’essenza di Dio. Non utilizza “theiotes”, che significa divinità in senso generico (come in Romani 1,20). Qui è il termine più forte possibile per affermare che Gesù è realmente “Dio”, non solo “divino”.

Questa pienezza divina risiede in modo incarnato (“somatikos”, “corporalmente”), cioè nel corpo umano di Cristo.

Paolo mette in guardia contro le filosofie umane e gli insegnamenti gnostici che svalutavano Cristo o lo consideravano un essere intermedio:

v. 8: “Guardate che nessuno vi inganni con la filosofia e con vuoti raggiri…”
v. 9: “Poiché in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità.”
v. 10: “E voi avete tutto pienamente in lui, che è il capo di ogni principato e potestà.”

L’argomento è chiaro: non serve cercare “poteri celesti” o “emanazioni divine” (come gli gnostici dicevano). Tutto ciò che è divino si trova in Cristo, nella sua persona incarnata. Gli gnostici sostenevano che la “pienezza divina” era distribuita tra vari esseri celesti, chiamati “eoni”. Paolo replica che “tutta la pienezza è in Cristo solo”.

Cristo è vero Dio e vero uomo:

“In lui abita corporalmente” (vero uomo)

“tutta la pienezza della divinità” (vero Dio)

È la dottrina dell’Incarnazione, del Verbo fatto carne (Giovanni 1,14).

In Cristo la natura divina e quella umana sono unite in una sola Persona, quella del Verbo eterno, il Figlio unigenito. Colossesi 2,9 descrive questa unione ipostatica e proclama con assoluta chiarezza che Gesù Cristo è realmente e pienamente Dio, e in Lui abita in modo permanente tutta la natura divina.

È uno dei fondamenti biblici della fede cristiana dell’Incarnazione e della divinità di Cristo: Dio non si limita a manifestarsi in Gesù, Dio abita in Lui in tutta la sua pienezza.

IO E IL PADRE SIAMO UNO

A cura di Giuseppe Monno

Giovanni 10,30
“Io e il Padre siamo uno.”

La parola chiave è “hen” (“uno”), che è neutro, non maschile. Se Gesù avesse detto “heis” (“uno”), al maschile, avrebbe significato “una sola persona”. Invece utilizza il neutro “hen”, che significa unità di essenza o natura, non di persona.

Quindi Gesù non dice: “Io e il Padre siamo la stessa persona”, ma: “Io e il Padre siamo una sola cosa, una sola realtà divina”.

I giudei capiscono perfettamente che Gesù sta rivendicando “uguaglianza” con Dio, e per questo vogliono lapidarlo:

“Non ti lapidiamo per una buona opera, ma per bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio.” (v. 33)

Questo versetto è la chiave interpretativa: gli ascoltatori capiscono che Gesù ha appena affermato la propria divinità, non semplicemente una comunione morale o spirituale col Padre.

Giovanni 10,30 non va inteso come unione d’intenti, ma come affermazione ontologica: Gesù possiede la stessa natura divina del Padre.

Anche in Giovanni 5,18 leggiamo che i giudei cercavano di uccidere Gesù perché si faceva uguale a Dio.

Inoltre, nel Getsemani, Gesù prega il Padre perché i discepoli “siano uno come noi siamo uno” (Giovanni 17,11.21), unità del Padre e del Figlio come modello di unità ecclesiale.

CRISTO… COLUI CHE È… DIO BENEDETTO

A cura di Giuseppe Monno

Romani 9,5:

“da essi proviene Cristo secondo la carne, colui che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli…”

Qui “Dio benedetto” non è una dossologia rivolta al Padre, ma una descrizione di Cristo.

La costruzione “ho on” (“colui che è”) è una forma appositiva naturale che qualifica immediatamente “ho Chistos” (“Cristo”).

In tutto il Nuovo Testamento, eulogetós (“benedetto”) segue sempre il sostantivo a cui si riferisce. Qui “theòs eulogetós” (non “eulogetós theòs”) suggerisce che non è una dossologia, ma una descrizione di Cristo.

Si armonizza con altri testi paolini che attribuiscono a Gesù titoli divini (es. Tito 2,13, Colossesi 2,9, ecc.).

In greco biblico l’espressione “Dio benedetto” può comparire in due modi:

dossologia: “eulogetòs theòs” (“sia benedetto Dio”), aggettivo + sostantivo

descrizione: “theòs eulogetós” (“Dio benedetto”), sostantivo + aggettivo

La differenza è piccola ma molto significativa.

Nel Nuovo Testamento ci sono molti casi (Marco 14,61; Luca 1,68; 2Corinzi 1,3; Efesini 1,3; 1Pietro 1,3) dove l’ordine è “eulogetòs theòs” (“sia benedetto Dio”, aggettivo + sostantivo), e indica una dossologia, cioè una benedizione rivolta a Dio, non una descrizione.

L’unico caso di “theòs eulogetós” (“Dio benedetto”, sostantivo + aggettivo) nel Nuovo Testamento è Romani 9,5.

Nel greco biblico, quando l’aggettivo segue il sostantivo (“theòs eulogetós”), il senso è descrittivo o qualificativo, non esclamativo o liturgico.

Quindi se Paolo avesse voluto scrivere una dossologia (“Sia benedetto Dio”), avrebbe scritto “theòs eulogetós” (aggettivo + sostantivo). Ma ha scritto “ho on epi panton theòs eulogetós” (“colui che è sopra ogni cosa, Dio benedetto”). Qui “theòs eulogetós” è una qualifica attributiva, non un’invocazione.

Questa struttura, dal punto di vista sintattico, si attacca naturalmente a “ho Chistos” (“Cristo”) come una sua descrizione appositiva:

“… Cristo… colui che è sopra ogni cosa, Dio benedetto…”

L’ordine “theòs eulogetós” in Romani 9,5 non è mai utilizzato nelle dossologie, ma è coerente con una frase descrittiva che identifica Cristo come Dio benedetto.

Perciò la lettura più naturale e grammaticalmente coerente è quella cristologica:

Paolo chiama esplicitamente Cristo “Dio benedetto nei secoli”, riconoscendolo sovrano ed eterno.

MIO SIGNORE E MIO DIO

A cura di Giuseppe Monno

Giovanni 20,28:

“Rispose Tommaso e gli disse: mio Signore mio e Dio.”

L’uso del doppio articolo (“ho Kyrios… ho Theos…”) indica due appellativi distinti ma riferiti alla stessa persona: Gesù. Non è una formula esclamativa di stupore, ma una professione di fede personale e diretta. Tommaso rivolge quelle parole proprio a Gesù, come vediamo dalle parole “eipen auto” (“a lui disse”).

In Giovanni, Kyrios e Theos non sono titoli onorifici qualunque. Kyrios rimanda al Signore dell’Antico Testamento (Yhwh), mentre Theos afferma la piena partecipazione di Gesù alla divinità. Tommaso riconosce in Gesù non solo il maestro risorto, ma Dio stesso manifestato nella carne (cfr. Giovanni 1,14; 1Timoteo 3,16).

Il doppio “mou” (mio) esprime l’appropriazione intima della fede: non un’adesione teorica, ma un incontro salvifico. La fede non è più condizionata dalla vista, ma nasce dal riconoscimento del Risorto come Signore e Dio della propria vita.

Gesù non corregge Tommaso, segno che accetta il suo riconoscimento divino:

“Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto.”

Questa beatitudine finale estende la fede di Tommaso a ogni credente futuro.

“Mio Signore e mio Dio” è una professione di fede che riassume tutto il Vangelo.

SUL CANTO DEGLI ANGELI NEL NATALE

A cura di Giuseppe Monno

Nel cuore della notte, sul silenzio dei campi di Betlemme, la voce degli angeli rompe la distanza tra cielo e terra: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra…” È un canto che contiene tutto il mistero del Natale — la gloria che sale e la pace che scende — come due movimenti che si incontrano in un punto solo: il Bambino nella mangiatoia.

Ancora oggi tanti fedeli si interrogano su quelle parole: “pace in terra agli uomini di buona volontà” o “agli uomini che Egli ama”? Non è soltanto una questione di traduzione, ma di prospettiva spirituale.

La versione più antica, “agli uomini di buona volontà”, sembra porre l’accento sull’uomo, sulla sua disposizione interiore: la pace come dono che si riceve quando il cuore è aperto, umile, docile. È la buona volontà di chi cerca Dio, di chi, come i pastori, veglia nella notte. È la pace che fiorisce là dove c’è un terreno disponibile, una volontà che si lascia guidare. In questo senso, la pace è dono e frutto insieme: dono di Dio, ma accolto solo da chi ha un cuore libero e buono.

La versione più recente, “agli uomini che Egli ama”, sposta invece lo sguardo su Dio: la pace non nasce dall’impegno umano, ma dall’amore gratuito del Signore. Non si tratta di un premio per i meritevoli, ma di una grazia riversata su chi è amato, cioè su tutti, perché Dio ha scelto di amare l’umanità intera. È una pace che precede ogni merito e che scaturisce dal mistero della misericordia.

Le due letture non si oppongono, ma si completano. La pace nasce dall’amore di Dio e trova dimora nel cuore dell’uomo di buona volontà. È un dialogo tra grazia e libertà: Dio offre la pace, ma essa fiorisce solo dove la volontà dell’uomo si apre alla bontà. Gli angeli cantano dunque un annuncio universale e personale insieme: Dio ama ogni uomo, ma solo chi accoglie quell’amore entra davvero nella pace.

Così, nel giorno di Natale, il cielo e la terra si incontrano: la gloria di Dio si rivela non per allontanare l’uomo, ma per raggiungerlo. E la pace — tanto desiderata, fragile e luminosa — è il segno che l’amore di Dio è entrato nel tempo, perché anche l’uomo, finalmente, possa avere una “buona volontà” che risponde al dono ricevuto.

La buona volontà è il terreno, l’amore di Dio è la pioggia; e quando la pioggia cade sulla terra ben disposta, allora germoglia la pace. Per questo, ogni Natale, gli angeli ripetono lo stesso canto: non per ricordare un evento passato, ma per annunciare ancora che la pace non è lontana. Essa nasce dove Dio è amato e dove l’uomo, finalmente, vuole il bene che Dio vuole.

DIVINITÀ E KENOSI DEL FIGLIO DI DIO

A cura di Giuseppe Monno

Filippesi 2,5-7

5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, 6 il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; 7 ma svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana

Il greco “morphe Theou” che letteralmente significa “forma di Dio”, indica la condizione o natura divina preesistente, perciò traduzioni come la CEI traducono con “natura divina”.

Lo “svuotamento” (la cosiddetta “kenosi”) non significa che il Figlio di Dio si sia privato della sua divinità, poiché ciò sarebbe impossibile, visto che Egli è Dio per natura, non per partecipazione o dono. La divinità non gli è attribuita, ma è la sua stessa essenza. In altre parole, essere Dio non è qualcosa che il Figlio “ha”, ma qualcosa che Egli “è”.

Il Figlio di Dio svuotò sé stesso nel senso che, assumendo la natura umana e divenendo in tutto simile a noi (ad eccezione del peccato), rinunciò a manifestare la divinità pienamente, accettando i limiti della condizione umana, sottomettendosi alla sofferenza e alla morte, velando la gloria divina sotto la carne. È quindi uno “spogliarsi” nella modalità dell’agire, non nell’essenza dell’essere.

CRISTO È IL VERO DIO E LA VITA ETERNA

A cura di Giuseppe Monno

1Giovanni 5,20:

“Sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: questo è il vero Dio e la vita eterna.”

Secondo la regola grammaticale, di solito il pronome dimostrativo “houtos” (questo) si riferisce al soggetto o al nome più vicino nel contesto. Qui houtos si collega all’antecedente più vicino, Gesù Cristo. Perciò la lettura più naturale è quella cristologica:

“Gesù Cristo è il vero Dio e la vita eterna”.

Considerazioni teologiche o interpretative potrebbero spingere a leggere diversamente (ad esempio riferendosi al Padre), ma non è la scelta grammaticale più naturale.

Inoltre, il confronto con altri testi giovannei (Giovanni 1,14.18; 20,28) supporta la lettura di 1Giovanni 5,20 dove houtos si riferisce grammaticalmente a Gesù Cristo, coerente con lo stile dell’evangelista e delle epistole.

Nei testi giovannei “la vita eterna” è sempre collegata a Cristo (Giovanni 3,15-16, 5,24, 6,47-48, in particolare 1Giovanni 5,11-12). Questo supporta grammaticalmente e teologicamente l’interpretazione cristologica di 1Giovanni 5,20:

“houtos (il Figlio, Gesù Cristo) è il vero Dio e la vita eterna”.

LA CHIESA DI DIO CHE EGLI HA ACQUISTATO CON IL PROPRIO SANGUE

A cura di Giuseppe Monno

Atti 20,28:
“La Chiesa di Dio, che Egli ha acquistato con il proprio sangue.”

L’attribuzione del sangue a Dio, ha un profondo valore trinitario. Si tratta di un’affermazione cristologica: Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo. Dire che “Dio ha acquistato la Chiesa con il proprio sangue” equivale a professare che Gesù è Dio, e che nel suo sangue si manifesta la comunione tra il divino e l’umano. La teologia cattolica vede in questa formula una delle più antiche professioni di fede implicite nella divinità di Cristo.

“Chiesa di Dio”

Secondo gli studiosi la lezione “ekklesian tou theou” (“Chiesa di Dio”) è più affidabile rispetto a “ekklesian tou kyriou” (“Chiesa del Signore”).

Il Codex Vaticanus (B) del IV secolo — uno dei due principali testimoni del testo alessandrino e considerato il più autorevole codice biblico greco esistente — legge “ekklesian tou theou” (“Chiesa di Dio”).

Il Codex Sinaiticus (א) del IV secolo legge anch’esso “ekklesian tou theou” (“Chiesa di Dio”), confermando la stessa tradizione testuale alessandrina del Vaticanus.

Il Codex Alexandrinus (A) del V secolo riporta “ekklesian tou kyriou” (“Chiesa del Signore”), ma vi sono segni di correzioni marginali, e alcuni studiosi ritengono che la lezione originaria fosse “tou theou”.

Il Codex Bezae (D) del V secolo, legge “ekklesian tou kyriou” (“Chiesa del Signore”). Questa variante fu probabilmente introdotta per evitare la difficoltà teologica di dire che Dio ha sangue. Quindi una correzione teologicamente motivata.

Gli studiosi di critica testuale moderna (Nestle–Aland, UBS⁵, Metzger, Aland & Aland) concordano che la lezione “ekklesian tou theou” (“Chiesa di Dio”) è più antica e più difficile dal punto di vista teologico, e dunque più probabile secondo il principio della lectio difficilior (la lezione più ardua è spesso quella originaria).

La variante “ekklesian tou kyriou” (“Chiesa del Signore”) è più recente e deriva da una armonizzazione o correzione. Perciò la lezione più antica e sicura attestata è “ekklesian tou theou” (“Chiesa di Dio”), presente già nel Codex Vaticanus e nel Codex Sinaiticus, entrambi del IV secolo.

I principali manoscritti che attestano “ekklesian tou theou” (“Chiesa di Dio”) sono: Codex Sinaiticus (א), Codex Alexandrinus (A), Codex Vaticanus (B), Codex Ephraemi (C), Codex Bezae (D), Codex Claromontanus (D), Codex Sangermanensis (L), Codex Boernerianus (E), Codex Regius (F), Codex Laudianus (G), Codex Monacensis (Q), Codex Vaticanus 2061 (G), Codex Cyprius (K).

“con il proprio sangue”

Nei principali manoscritti antichi (P74, Sinaiticus, Vaticanus, Alexandrinus, ecc.) troviamo la forma “haimatos tou idiou” (“sangue del proprio”).

L’aggiunta di “huiou” (“Figlio”) non è documentata nei principali manoscritti antichi, ma compare come spiegazione teologica nelle traduzioni o come ipotesi critica, non come variante attestata nell’apparato greco principale.

La lettura “con il proprio sangue” ha indotto alcuni copisti a modificare “Chiesa di Dio” in “Chiesa del Signore” per evitare l’attribuzione a Dio di avere sangue.

Conclusione

La lettura più sicura è “la Chiesa di Dio che Egli ha acquistato con il proprio sangue”. Mentre “la Chiesa di Dio che Egli ha acquistato con il sangue del suo Figlio” è un’interpretazione e non è attestata nei principali manoscritti antichi.

Il Dio che ha acquistato la Chiesa con il proprio sangue è Gesù Cristo: vero Dio e vero uomo.

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