LA SEMPRE VERGINE: LA VERGINITÀ DI MARIA DURANTE IL PARTO

A cura di Giuseppe Monno

La dottrina cattolica della verginità perpetua di Maria, inclusa la verginità nel parto, non nasce da un simbolismo tardivo, ma dalla fede antichissima della Chiesa e dall’interpretazione costante della Scrittura alla luce della Tradizione.
Di fronte alle obiezioni protestanti che riducono il parto di Gesù ad un evento ordinario, la Chiesa sottolinea che la nascita del Figlio di Dio è un mistero unico, nel quale l’azione divina non violenta ma trasfigura la natura.
I Padri hanno sempre visto nella nascita miracolosa di Cristo un segno della sua identità divina e della consacrazione singolare di Maria, Arca dell’Alleanza e porta “chiusa” di Ezechiele 44,2.
Difendere questa verità significa riconoscere che l’Incarnazione non fu solo un fatto storico, ma un evento sacro nel quale Dio stesso ha custodito l’integrità della Madre del Verbo eterno.

Di seguito si risponde a qualche obiezione protestante riguardo la virginitas in partu:

1. Se Maria partorì da vergine, perché offrì un sacrificio per la purificazione?

Maria obbedì alla Legge non perché impura, ma perché giusta.
L’argomento protestante parte da un presupposto che la Scrittura non richiede:
la purificazione rituale non è un giudizio morale né una diagnosi medica, ma una norma cultuale che riguarda lo stato giuridico della donna nella comunità israelita.

La Legge di Mosè, infatti, non dice che la donna diventa “impura perché ha avuto rapporti col marito” o “perché il parto distrugge la verginità”, ma semplicemente perché il sangue del parto comporta un periodo di separazione cultuale (Levitico 12).
Anche una donna che avesse partorito miracolosamente — come avviene, per esempio, nelle nascite straordinarie dell’Antico Testamento (es. Isacco, Sansone, Samuele) — sarebbe stata sottoposta alle stesse norme.

Ciò significa che l’offerta non dimostra nulla sullo stato fisico del parto; l’offerta non implica perdita della verginità; Maria si sottomette alla Legge perché è la “figlia di Sion”, modello di obbedienza, non perché la Legge abbia qualcosa da “purificare” in lei.
La sua obbedienza anticipa quella di Cristo, che “nato da donna, nato sotto la Legge” (Galati 4,4), la adempie perfettamente pur essendo Santo.
Maria compie ciò che la Legge richiede per solidarietà con Israele, non per bisogno personale. È lo stesso motivo per cui Gesù si fa battezzare pur essendo senza peccato.

2. La Bibbia non descrive un parto miracoloso: quindi non è avvenuto.

Il Nuovo Testamento non descrive mai il “come” del parto, ma l’origine divina del Figlio.

La Scrittura è estremamente sobria nel parlare della nascita di Gesù. L’evangelista riporta solo l’essenziale: “Diede alla luce il suo figlio primogenito” (Luca 2,7). L’assenza di dettagli non è un argomento contro il miracolo:
nel genere biblico, il silenzio non è negazione.
Al contrario:
Luca e Matteo sottolineano in modo forte e ripetuto l’origine divina del concepimento
(Luca 1,35; Matteo 1,18-25).

Se la concezione è opera dello Spirito Santo e riguarda l’intero mistero dell’incarnazione, è teologicamente coerente che anche il parto sia avvolto dalla stessa iniziativa divina, come i Padri hanno sempre interpretato.
La Scrittura non intende dare una descrizione ostetrica, ma rivelare che Gesù entra nel mondo come Luce che non viene da un uomo (Giovanni 1,13). Il parto verginale è la “corona” del concepimento miracoloso, non una leggenda aggiunta.

3. La verginità durante il parto è un’invenzione tardo-medioevale.

L’obiezione protestante secondo cui la verginità nel parto sarebbe un’invenzione tardo-medievale è storicamente infondata. Le testimonianze dei Padri sono numerose, precoci e coerenti.

Sant’Ignazio di Antiochia (Epistula ad Ephesios, XIX, 1)
parla del mistero del parto come opera silenziosa e nascosta di Dio.

Sant’Ireneo (Adversus haereses III, 21,4; V, 19,1)
vede in Maria la “terra vergine” da cui Dio trae il Nuovo Adamo.

Tertulliano (De carne Christi, cap. 18–19)
afferma che Maria concepì vergine, e partorì vergine.

Origene (Commentarii in Evangelium Lucae, Liber 1–2, cap. 7)
commenta che Maria è “sempre vergine”, secondo la tradizione della Chiesa.

Sant’Ambrogio (De institutione Virginis, cap. 8; Expositio in Psalmum CXVIII, sermo 17)
usa l’immagine della luce (Cristo) che attraversa il vetro (Maria) senza romperlo, non per poetica ma per dottrina cristologica.

San Gregorio di Nissa (De Nativitate Christi)
commenta la nascita di Cristo “senza corruzione”, “impassibile”, e simile a un raggio di sole che attraversa un vetro senza romperlo
(immagine utilizzata anche da sant’Ambrogio).

San Giovanni Crisostomo (Homilia in Nativitatem Domini)
collega esplicitamente la verginità perpetua di Maria alla natura miracolosa del parto di Cristo, confermando la dottrina patristica della verginità in partu:
Il parto della Vergine non fu accompagnato da dolore
(parthenos partus sine dolore).

Sant’Agostino (De sancta virginitate 4; Sermo 186)
afferma che Cristo “passò attraverso il chiuso grembo della Vergine”,
analogamente a come,
risorto, “entrò tra in casa dei discepoli a porte chiuse”.

San Leone Magno (Sermo 22 in Nativitate Domini)
dice che Cristo nasce senza violare la verginità della madre.

L’universalità orientale e occidentale su questo punto mostra che non è un’invenzione tardo-medioevale, ma un dato organico della fede primitiva.

Non è tanto che cosa pensiamo di Maria,
ma chi è Gesù.
Se Gesù è realmente il Figlio di Dio, allora
la sua concezione non può esser frutto di un uomo;
la sua nascita può essere un atto straordinario della potenza divina;
il suo venire al mondo non è vincolato dalle leggi biologiche in modo meccanico.

Il parto verginale è un segno che l’umanità di Cristo è vera, ma non imposta dall’uomo:
è puro dono.
Difendere Maria è difendere la verità sull’Incarnazione.

L’offerta del sacrificio da parte di Maria non contraddice la verginità nel parto:
mostra che la Madre del Signore, pur destinataria di un miracolo unico, rimane figlia del suo popolo e obbediente alla Legge. E proprio quell’obbedienza conferma che ciò che è accaduto in lei non è un mito, ma un evento reale, vissuto nella storia concreta di Israele.

La verginità nel parto non è un privilegio isolato, ma il sigillo di Dio sulla nascita del suo Figlio: un parto che non cancella la natura, ma la supera senza violarla, come solo l’amore divino sa fare.

La perpetua verginità di Maria è un dogma eminentemente cristocentrico, non marianocentrico. È cioè un insegnamento che nasce dal modo in cui la Chiesa comprende Cristo, e solo in secondo luogo dal ruolo singolare di Maria.

Maria non è vergine nonostante Cristo, ma a causa di Cristo.
La sua verginità perpetua è un monumento vivente alla verità dell’Incarnazione:
il Fiume eterno è entrato nella storia attraverso una Sorgente che è rimasta fonte purissima perché il Fiume non ha origine umana.

La perpetua verginità è strettamente collegata al titolo di Theotókos, definito a Efeso (431).
Se Maria è Madre vera del Verbo incarnato, il suo rapporto con il Figlio è unico, non replicabile in altre maternità.
La relazione che la definisce non è con un uomo, ma con Dio stesso.
Perciò la verginità perpetua sottolinea la singolarità della maternità divina, non un’idea platonica di purezza.

La perpetua verginità di Maria è profondamente cristocentrica.
Affermarla significa riconoscere la singolarità dell’Incarnazione;
la divinità di Cristo;
l’unicità della sua nascita nel mondo;
la grandezza della maternità divina di Maria;
la natura sacramentale e spirituale della Chiesa.

La perpetua verginità ha anche una valenza ecclesiologica:
Maria rappresenta la Chiesa che genera Cristo nel mondo mediante la fede, non mediante potenza umana.
Come Maria concepisce senza uomo, così la Chiesa genera nuovi figli attraverso lo Spirito.
Come Maria rimane vergine, così la Chiesa custodisce la purezza della fede ricevuta.
Questa prospettiva è ancora una volta radicata in Cristo, non in Maria.

VIRGINITAS IN PARTU

A cura di Giuseppe Monno

La verginità di Maria durante il parto non riguarda solo l’integrità fisica, ma soprattutto il modo in cui Dio entra nella storia: senza violare, senza forzare, ma compiendo un’opera che supera l’ordine naturale senza distruggerlo. Nel mistero del Natale, il Figlio eterno del Padre nasce da una donna che rimane vergine, come segno che l’iniziativa non viene dall’uomo ma da Dio. La venuta del Messia, secondo la fede cattolica, non è il frutto di una forza generativa terrena, ma il compimento di una promessa divina che si apre alla libertà umile di Maria.

Per questo la Chiesa afferma che il parto fu “verginale”: non un mito per esaltare Maria, ma un linguaggio teologico per indicare che Gesù entra nel mondo come Luce che non spezza la fragile lucerna che la accoglie, ma la rende ancora più trasparente. Maria, madre che rimane vergine, diventa così immagine della Chiesa: capace di generare vita non grazie alla potenza umana, ma accogliendo la grazia.

Isaia 7,14 annuncia che “la vergine concepirà e partorirà un figlio”. L’accento biblico non si limita al concepimento, ma include il parto come atto unico dell’opera di Dio.

Luca 1,34-35 registra la domanda di Maria: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?”. La risposta dell’angelo — “lo Spirito Santo scenderà su di te” — sottolinea che l’intero evento della maternità, non solo l’inizio, è custodito dall’azione divina.

Luca 2,7, pur descrivendo un parto reale, non suggerisce alcuna perdita della verginità. La discrezione lucana, letta nella tradizione ecclesiale, lascia spazio a un mistero che supera la fisiologia senza negarla.

I teologi cattolici hanno spesso interpretato la verginità nel parto come un segno cristologico prima ancora che mariano. Non riguarda tanto una qualità “fisica”, quanto la rivelazione che Gesù è il Figlio di Dio che nasce senza subordinarsi alla logica della carne.

La nascita “miracolosa”, per i Padri, indica che Cristo è il “Nuovo Adamo”. Come Adamo fu tratto da un suolo vergine, Cristo nasce da un grembo vergine, inaugurando una nuova creazione.

La verginità di Maria nel parto è vista anche come simbolo dell’Incarnazione non violenta: Dio si fa uomo senza rompere ciò che Egli stesso ha creato.

Sant’Ambrogio parla di Cristo che “passa” attraverso Maria come la luce attraverso il vetro, senza spezzarlo: non una descrizione fisica, ma un’immagine teologica per dire che l’azione divina trascende l’ordine naturale senza contraddirlo.

San Leone Magno insegna che il parto verginale testimonia la duplice natura di Cristo, vero Dio e vero uomo: nasce come uomo, ma in modo tale da manifestare la sua origine divina.

Origene, pur con le sue formulazioni particolari, insiste sul fatto che Maria conserva una purezza che non è soltanto corporea, ma spirituale, perché il parto del Verbo è un evento trascendente.

Il mistero della verginità di Maria durante il parto è anche un annuncio rivolto al credente: ciò che nasce da Dio in noi non dipende dalla forza né dai meriti personali, ma dalla disponibilità a essere grembo aperto alla grazia. Maria è icona di questa disponibilità radicale: ciò che custodisce non lo custodisce per sé, ma per offrirlo al mondo. Il suo parto verginale diventa così un invito alla Chiesa e a ogni cristiano: lasciare che Dio generi in noi una vita nuova senza paura di perdere nulla, perché la grazia non toglie, ma compie.

LA PORTA CHIUSA E L’INVIOLABILITÀ VERGINALE DI MARIA

A cura di Giuseppe Monno

Ezechiele 44,2

Questa porta rimarrà chiusa; non sarà aperta e nessuno entrerà per essa, perché il Signore, Dio d’Israele, è entrato per essa; perciò resterà chiusa.

L’interpretazione cattolica – specialmente nella tradizione patristica e nella mariologia – vede in Ezechiele 44,2 non solo una norma cultuale riguardante il tempio, ma anche un simbolismo profetico che anticipa la Vergine Maria.

La Chiesa dunque riassume due linee interpretative principali: letterale (cultuale) e tipologica (mariologica).

Interpretazione letterale cultuale

Nel contesto del libro di Ezechiele:
la “porta orientale” del tempio resta chiusa perché vi è passato Dio stesso, come segno della Sua presenza unica e inaccessibile.

La chiusura della porta è quindi un simbolo
della santità assoluta di Dio,
del fatto che Dio ha visitato il Suo popolo,
e della separazione tra il divino e il profano.

Liturgicamente e teologicamente l’ingresso del Signore consacra e sigilla la porta:
ciò che Dio tocca diventa “inviolabile”.
La porta chiusa mantiene quindi una dimensione di mistero e trascendenza.

Interpretazione mariologica tipologica

Fin dai primi secoli, la Chiesa ha letto questo versetto come una profetica figura della Vergine Maria, in particolare nella “porta chiusa” la sua perpetua verginità.

Secondo i Padri della Chiesa:
Dio stesso è “entrato” in Maria (Incarnazione).
La porta (Maria) resta “chiusa” prima, durante e dopo il parto.
La verginità di Maria è quindi:
ante partum (prima della nascita di Gesù),
in partu (durante la nascita),
post partum (dopo la nascita).

I Padri della Chiesa collegano Ezechiele 44,2 alla Vergine Maria.
Questa interpretazione non è marginale, ma molto antica:

Sant’Ambrogio: “Maria è la porta orientale che solo Cristo ha attraversato”.
(De institutione virginis 8,52; Explanatio in Psalmum CXVIII, sermo 3, 9)

Sant’Agostino: “Cristo è entrato chiudendo le porte della verginità”.
(De sancta virginitate, cap. 6; Expositio in Psalmum CXVIII, sermo 17)

San Girolamo: “La porta che resterà chiusa simboleggia Maria dopo il parto”.
(Commentarii in Ezechielem, PL 24, 518–520; Epistola ad Eustochium, PL 22, 372–374)

San Gregorio di Nissa: “Maria è come la porta chiusa: solo Cristo passa attraverso di lei, simbolo di purezza e mediazione.”
(De virginitate, cap. 7, PG 44, 788–790)

San Cirillo di Alessandria: “La porta del tempio è tipo della Vergine, che resta inviolata e pura anche dopo la nascita del Salvatore.”
(Commentaria in Johannem, Homilia V, PG 75, 555–558)

Anche l’espressione “Porta del Cielo” nelle Litanie Lauretane — approvate nel 1587 da papa Sisto V — deriva direttamente da questa tradizione.

La mariologia cattolica legge in Ezechiele 44,2 un segno della singolarità di Maria nel progetto di salvezza:
Dio entra nel mondo attraverso di lei.
Nessun altro “entra” nel grembo che Dio ha scelto e consacrato.
Maria diviene tempio, porta e santuario unico.

La porta chiusa indica l’inviolabilità del corpo di Maria, ma anche:
la sua unicità nella storia della salvezza,
la sua totale dedizione a Dio,
la purezza e integrità del grembo che ha ospitato il Verbo eterno.

L’ABISSO

A cura di Giuseppe Monno

Nei Vangeli — Matteo 8,28-34, Marco 5,1-13 e Luca 8,26-33 — troviamo il racconto dell’uomo posseduto da una legione di demoni che chiedono a Gesù di non mandarli nell’abisso.

La Bibbia usa immagini concrete per descrivere le realtà spirituali:
L’abisso non è un luogo fisico, ma una metafora per uno stato di completa impotenza, isolamento e lontananza da Dio.

I demoni, essendo esseri spirituali, possono percepire la loro condizione come una prigione o separazione assoluta da Dio, qualcosa di reale per loro anche se non ha una dimensione fisica.
Chiedono a Gesù di non mandarli nell’abisso perché vogliono evitare uno stato di totale impotenza e isolamento, che nella loro percezione è un’agonia.

Il “luogo” dell’abisso serve anche a enfatizzare la serietà della sottomissione spirituale: c’è un prezzo, una conseguenza tangibile, anche se metaforica.
I demoni implorano Gesù sottolineando il Suo potere divino e mostrando il contrasto tra il bene e il male.

I demoni, pur essendo esseri spirituali, hanno una coscienza del male e della propria impotenza. Essere mandati in un luogo metafisico di estrema impotenza come l’abisso, significa non solo la perdita di libertà di agire sul mondo, ma anche una punizione più grave della loro condizione attuale.

L’abisso è uno strumento di giustizia e ordine cosmico: impedisce ai demoni di nuocere agli esseri umani fino al giudizio finale.
Quindi, la richiesta dei demoni (“non mandarci nell’abisso”, Luca 8,31) è narrativa e simbolica:
mostra sia la loro paura che la supremazia di Cristo sul male.

L’abisso simboleggia il potere di Dio di dominare e confinare le forze del male.
Non è un luogo geografico quanto invece un concetto: il male può essere messo sotto controllo e separato dalla creazione umana.
L’abisso in questo contesto è metafisico perché è una realtà spirituale e morale, non fisica, che indica il confine tra il dominio divino e le forze del male.

“DONNA” NELLA BIBBIA

A cura di Giuseppe Monno

L’appellativo “donna” era, nell’antichità, una forma di cortesia, simile all’odierno “signora”. Tuttavia, nel contesto evangelico, questo termine assume un significato teologico più profondo, che la tradizione cattolica ha messo in particolare evidenza.

Nel libro della Genesi, la prima donna è chiamata “donna” (Genesi 2,23; 3,20).
Quando Gesù chiama Maria “donna”, richiama il linguaggio della nuova creazione:
Maria è la nuova Eva, in parallelo con Cristo, il nuovo Adamo (cfr. 1 Corinzi 15,45).

Eva aveva cooperato alla caduta attraverso la sua disobbedienza;
Maria, al contrario, coopera alla Redenzione con la sua fede e obbedienza.
Pertanto, chiamando Maria “donna”, Gesù la presenta come la madre dell’umanità redenta.

La Chiesa riconosce che la figura della “donna” di Genesi 3,15 può essere interpretata in due modi — ecclesiologico e marianologico — intimamente connessi tra loro:

  1. Maria, come nuova Eva, che coopera alla Redenzione insieme a Cristo, il nuovo Adamo.
  2. La Chiesa, comunità dei redenti, che in Cristo continua a vincere il male nel mondo.

Di conseguenza, Maria è figura e madre della Chiesa, e la Chiesa prolunga nel tempo la vittoria sul serpente iniziata in lei.

Ai piedi della croce, quando Gesù dice a Maria:

“Donna, ecco tuo figlio” (Giovanni 19,26),
e poi al discepolo:
“Ecco tua madre” (v. 27),

la tradizione cattolica riconosce in queste parole il momento in cui Maria diventa Mater Ecclesiae, cioè Madre della Chiesa.

Maria è anche la “donna vestita di sole” (Apocalisse 12), figura che rappresenta al tempo stesso Maria e la Chiesa, in un’unica visione simbolica che unisce le due realtà:

Storico-salvifica: Maria, Madre del Messia, partorisce il Figlio e partecipa alla sua vittoria.

Ecclesiologica: La Chiesa, Madre dei credenti, genera Cristo nei cuori, perseguitata dal male ma sempre protetta da Dio.

Come Maria ha dato alla luce il Figlio di Dio nella carne,
così la Chiesa lo dona al mondo nella fede e nei sacramenti.

Il titolo “donna” sottolinea, dunque, il ruolo universale e spirituale di Maria, che va ben oltre la sua maternità biologica.

Ogni volta che Gesù dice “donna”, non è un modo freddo o distaccato di rivolgersi a qualcuno, ma un modo solenne e significativo di interpellare le donne.
Le “donne” del Vangelo rappresentano figure individuali della fede: la peccatrice perdonata, la credente, la guarita.

Maria, invece, rappresenta la donna totale (compimento di ciò che significa essere donna nel progetto di Dio), la Chiesa stessa, colei che accoglie e genera la vita divina nel mondo.
In lei, la parola “Donna” indica una figura universale: la nuova Eva, la madre dei credenti, la donna della promessa.

Gesù chiama “donna” tutte le donne per restituire loro dignità e protagonismo nella storia della salvezza.
Ma chiama Maria “Donna” per rivelare la sua missione unica nella storia della Redenzione.

“In nessun’altra creatura, oltre a Maria, la Chiesa riconosce il compimento pieno di ciò che significa essere Donna:
accogliere la Parola, generare la vita, vivere la fede.”
(cfr. Redemptoris Mater, 46)

MARIA, LA MADRE DI DIO E MADRE NOSTRA

A cura di Giuseppe Monno

Nel mistero dell’Incarnazione, Maria occupa un posto unico e irripetibile. Ella non è una donna qualunque, ma colei che, con il suo libero “fiat”, ha permesso che il Verbo eterno di Dio si facesse carne (cfr. Luca 1,26-38).
In quel momento, l’umiltà della serva del Signore ha incontrato la potenza dell’Altissimo, e la storia della salvezza ha trovato il suo compimento.

Il titolo di “Madre di Dio” (Theotókos), proclamato solennemente dal Concilio di Efeso nel 431, non è un onore meramente sentimentale, ma una verità teologica profonda: colui che Maria ha concepito e partorito è vero Dio e vero uomo.
Negare a Maria questo titolo avrebbe significato negare l’unità della persona di Cristo.
Così i Padri della Chiesa, come san Cirillo di Alessandria, difesero con forza che “non è l’uomo comune che è nato da lei, ma il Verbo stesso di Dio, che si è fatto carne”.

Maria è dunque redenta in modo singolare, “in vista dei meriti di Cristo” (cfr. Ineffabilis Deus, 1854), preservata dal peccato originale fin dal primo istante della sua esistenza.
È ciò che la Chiesa professa nel dogma dell’Immacolata Concezione:
non un privilegio isolato, ma la più perfetta espressione della grazia redentrice. In lei si manifesta la potenza salvifica di Dio, anticipata e pienamente efficace.

Sotto la Croce, Maria vive la sua partecipazione più profonda al mistero pasquale. Non aggiunge nulla all’opera redentrice di Cristo, ma vi coopera in modo unico, con l’offerta del Figlio e di se stessa.
Gesù stesso, morente, la consegna al discepolo amato come Madre (cfr. Giovanni 19,26-27):
un gesto che la Chiesa ha sempre letto come il dono della maternità spirituale di Maria su tutti i credenti.
Ella diventa così Mater Ecclesiae, Madre della Chiesa, come Paolo VI proclamò solennemente nel Concilio Vaticano II (Lumen Gentium, 53-69).

Nel linguaggio biblico e regale dell’antico Israele, la “regina madre” (in ebraico “gebirah”) occupava un ruolo d’onore accanto al re, non come sposa, ma come madre del sovrano (cfr. 1 Re 2,19).
In questa chiave, Maria, Madre del Re messianico, è onorata come Regina del cielo, titolo che riflette la sua dignità e il suo servizio nel Regno di Dio. Non regna per sé, ma per condurre i figli verso Cristo.

Dal punto di vista linguistico, il “fiat” di Maria, tratto dal latino “fiat mihi secundum verbum tuum” (“avvenga per me secondo la tua parola”), non è un semplice consenso passivo a causa della sua natura di imperativo congiuntivo, che esprime volontà e atto di libera scelta, in contrasto con una submissio rassegnata.
L’uso di questo tempo verbale, che significa “sia” o “avvenga”, implica un atto di adesione attiva e consapevole da parte di Maria, rendendo il suo “sì” un evento che fa accadere qualcosa, piuttosto che limitarsi a lasciar accadere.

Nei secoli, i Padri e i teologi hanno visto in lei la “nuova Eva” (cfr. sant’Ireneo, Adversus haereses, III, 22,4):
come la prima donna contribuì alla disobbedienza, così Maria, con la sua fede, contribuisce all’obbedienza che genera la vita.
La sua libertà, illuminata dalla grazia, diventa modello per ogni credente chiamato a dire il proprio “sì” al disegno divino.

Maria, quindi, non è una figura marginale della fede cristiana:
è il segno più puro della cooperazione tra grazia e libertà, tra divino e umano.
In lei la Chiesa contempla ciò che è chiamata a diventare, totalmente disponibile alla Parola, immacolata nell’amore, madre nella fede.

“O Maria, quanto sei bella,
sei la gioia e sei l’amore;
Evviva Maria e Chi la creò.”
(cfr. Gli Amarimai)

LA MORTE DI UZZA

A cura di Giuseppe Monno

La vicenda di Uzza (2 Samuele 6,6-7; 1 Cronache 13,9-10) a prima vista, sembra una punizione sproporzionata: Uzza voleva solo impedire che l’Arca cadesse, ma Dio lo colpì a morte.

2 Samuele 6,6-7

“Quando giunsero all’aia di Nacon, Uzza stese la mano verso l’arca di Dio e la sostenne, perché i buoi la facevano piegare.
L’ira del Signore si accese contro Uzza; Dio lo colpì lì per la sua colpa, ed egli morì presso l’arca di Dio.”

La tradizione cattolica — in continuità con la lettura ebraico-cristiana — vede in questo episodio un segno teologico profondo, non una reazione arbitraria.

Nell’Antico Testamento, l’Arca era il segno visibile della Presenza divina.
Conteneva le tavole della Legge, la manna e il bastone di Aronne (Ebrei 9,4).
Era così sacra che Dio aveva dato norme precise su come trasportarla:

“Nessuno toccherà le cose sante, altrimenti morirà” (Numeri 4,15).
Solo i Leviti della famiglia di Kaat potevano portarla, e non con le mani, ma su aste di legno (Esodo 25,14-15).

Uzza, pur con buona intenzione, violò una legge divina.
L’episodio non vuole dire che Dio sia crudele, ma che la Sua santità è assoluta e non può essere “maneggiata” con familiarità o improvvisazione.

Secondo l’interpretazione cattolica, il gesto di Uzza rappresenta una buona intenzione fatta nel modo sbagliato.
Come insegna san Tommaso d’Aquino:
“Una buona intenzione non giustifica un atto contrario all’ordine stabilito da Dio.”
(Summa Theologiae, II-II, q.19, a.10)

In altre parole, non basta voler fare il bene: bisogna farlo secondo la volontà e le vie di Dio.
Uzza agì secondo il buon senso umano, ma non secondo l’obbedienza sacra.
È un messaggio severo ma pedagogico: Dio insegna che la familiarità con le cose sante non deve mai diventare leggerezza o autosufficienza.

La teologia cattolica (e i Padri della Chiesa) leggono in questo evento anche un significato spirituale:

Sant’Agostino (Quaestiones in Heptateuchum, II, 4) vede in Uzza un simbolo di chi “vuole sostenere la Chiesa con le proprie mani”, confidando nelle forze umane più che nella grazia di Dio.

San Gregorio Magno (Homiliae in Hiezechihelem, II, 2, 9; Moralium in Iob, XXV, 11) vi legge un ammonimento: le cose di Dio devono essere trattate con timore e riverenza, non come se potessimo “aiutare Dio”.

L’episodio, quindi, più che un castigo è un segno educativo, che rivela il confine tra zelo umano e sacralità divina.

Nella visione cattolica questo racconto ci ricorda che:
La santità di Dio non può essere manipolata né “normalizzata”.
Anche il bene va fatto nella docilità allo Spirito e nel rispetto della legge divina.
Il rapporto con Dio richiede sempre timore santo e umiltà, anche quando ci sembra di “aiutare” l’opera di Dio.

DIO SOVRANO ASSOLUTO E DOMINATORE DEL MALE

A cura di Giuseppe Monno

Nell’ebraismo antico, soprattutto nelle prime fasi della teologia biblica, Dio veniva talvolta presentato come “autore del male” in senso simbolico o relativo, e questo va compreso nel contesto culturale e religioso dell’epoca.

L’antico Israele era profondamente monoteista: tutto ciò che accade nel mondo — bene o male — è sotto il controllo di un unico Dio.
Perciò, se qualcosa di “male” accade, proviene da Dio stesso, in quanto Signore assoluto della storia.

Isaia 45,7

“Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e creo il male. Io, il Signore, compio tutto questo.”

Qui “male” non indica il male morale, ma piuttosto il male nel senso di sventura, calamità, giudizio.
Dio è presentato come colui che manda la sventura — guerre, pestilenze, disastri — come conseguenza o punizione dei peccati.

Dio è “autore” solo in senso di sovrano assoluto della storia, non nel senso che “produce il peccato”.

Amos 3,6

“Se accade una sciagura in una città, non è forse il Signore che l’ha causata?”

Ancora una volta, il profeta intende affermare la signoria totale di Dio: nulla sfugge alla Sua volontà.
Non esiste un “male” indipendente o opposto a Lui. È un linguaggio fortemente teocentrico e non morale.

Gli autori biblici usavano un linguaggio simbolico e unitario per descrivere Dio come l’unica causa prima di tutto ciò che esiste, anche del male inteso come evento negativo o giudizio.

Era un modo per affermare il monoteismo radicale:
Dio non ha rivali.
Nulla sfugge al Suo dominio.
Anche il dolore e la punizione hanno un senso dentro il Suo disegno.

In questo senso, Dio è detto “autore del male”, ma solo come colui che permette o dirige eventi dolorosi per un fine giusto o educativo.

Col tempo, l’ebraismo sviluppa una distinzione più chiara tra il male morale e il male fisico:
Il male morale (peccato) è opera dell’uomo, non di Dio.
Il male fisico (sofferenza, calamità) è ciò che Dio può mandare o permettere per correggere, purificare o giudicare.

Nel periodo del Secondo Tempio (dopo l’esilio babilonese), con testi come Giobbe, Sapienza e soprattutto i testi apocalittici, compare una maggiore consapevolezza dell’azione di forze spirituali (satana, spiriti malvagi) che agiscono sotto il permesso di Dio.

Dio non è più detto “autore del male” in senso diretto, ma colui che lo permette e lo domina.

GIOSAFAT E LE ALTURE: DUE PROSPETTIVE, UN’UNICA VERITÀ DI FEDE

A cura di Giuseppe Monno

I racconti di 1 Re 22,43-44 e 2 Cronache 17,6 sembrano offrire due versioni diverse sull’azione di Giosafat riguardo alle alture.

1 Re 22,43-44
“Imitò in tutto la condotta di Asa suo padre, senza deviazioni, facendo ciò che è giusto agli occhi del Signore. Ma non scomparvero le alture; il popolo ancora sacrificava e offriva incenso sulle alture.”
Giosafat non elimina le alture.

2 Cronache 17,6
“Il suo cuore divenne forte nel seguire il Signore; eliminò anche le alture e i pali sacri da Giuda.”
Giosafat elimina le alture.

La Chiesa seguendo l’ermeneutica dell’unità delle Scritture, non considera questi versetti come una contraddizione storica, ma come prospettive complementari.
Il Libro dei Re e le Cronache sono scritti in epoche diverse e con finalità teologiche differenti.

Re è stato scritto nel VI secolo a.C., in epoca esilica, con intento profetico-deuteronomico, cioè per spiegare la rovina di Israele e Giuda come conseguenza dell’infedeltà alla Legge.
Cronache è stato scritto nel V-IV secolo a.C., dopo l’esilio, con intento sacerdotale ed edificante, per incoraggiare la fede e la purezza del culto dopo il ritorno da Babilonia.
Perciò, Cronache tende a sottolineare gli aspetti positivi di Giosafat (la sua fedeltà e le riforme religiose), mentre Re ne mostra i limiti (non riuscì a eliminare completamente le alture).

Molti esegeti — George Leo Haydock, Peter Pett, Adam Clarke, Robert Jamieson, A. R. Fausset e David Brown — spiegano che:
In 2 Cronache 17,6 Giosafat eliminò le alture idolatriche (quelle con gli Ascerim, i pali sacri dedicati a divinità straniere).
In 1 Re 22,43 le alture che non furono eliminate erano probabilmente quelle dove il popolo offriva sacrifici al Signore, un culto non idolatrico, ma irregolare, perché non avveniva nel Tempio di Gerusalemme.
Quindi Giosafat fece molto per purificare il culto, ma non arrivò alla piena centralizzazione del culto nel Tempio.

Il Catechismo non commenta questo passo in particolare, ma l’approccio è coerente con la visione cattolica della progressiva rivelazione:
Dio agisce nella storia gradualmente, e le riforme dei re come Giosafat rappresentano tappe di purificazione verso il culto pienamente autentico, che culminerà in Cristo.

MARIA MEDIATRICE

A cura di Giuseppe Monno

La figura di Maria, Madre di Dio, ha occupato un posto centrale nella riflessione teologica e nella devozione cristiana sin dalle origini. La tradizione patristica la presenta come colei attraverso la quale la salvezza operata da Cristo è entrata nel mondo, mettendo in evidenza il suo ruolo di cooperatrice subordinata nell’opera redentrice del Figlio. Sant’Ireneo di Lione delinea già un parallelo tra Eva e Maria, indicando nella Vergine l’“obbediente” attraverso cui la redenzione si compie, mentre autori orientali e occidentali successivi — come san Cirillo d’Alessandria, San Giovanni Damasceno, sant’Ambrogio, San Leone Magno e san Bernardo di Chiaravalle — sottolineano Maria come strumento, canale o via attraverso cui le grazie divine raggiungono l’umanità.

Pur non usando il termine “mediatrice”, i Padri e i teologi medievali attribuiscono a Maria una funzione mediatrice partecipata, sempre subordinata e strumentale alla mediazione unica di Gesù Cristo. Tale funzione si manifesta in tre dimensioni principali: l’intercessione materna per i fedeli, la cooperazione alla redenzione tramite la maternità e l’obbedienza, e la distribuzione delle grazie. La teologia contemporanea, pur riconoscendo la ricchezza di questa tradizione, ribadisce con chiarezza la centralità e l’unicità della mediazione di Cristo, evitando ogni equivoco dottrinale.

L’analisi dei testi patristici e medievali permette di comprendere come la devozione e la riflessione teologica abbiano sviluppato progressivamente l’idea di Maria come figura mediatrice, senza attribuirle un potere autonomo, ma valorizzandone la cooperazione nell’opera salvifica e il ruolo di intercessione a favore dell’umanità. Questa prospettiva costituisce la radice storica e teologica della riflessione successiva sulla mediazione mariana, in un equilibrio tra venerazione e subordinazione al Redentore.

Sant’Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 22, 4

“Come Eva, sedotta dalla parola di un angelo, si allontanò da Dio, così Maria ricevette la buona notizia da un angelo, perché portasse Dio nel suo grembo e obbedendo, diventasse causa di salvezza per sé e per tutto il genere umano.”

Sant’Ireneo non usa il termine “mediatrice”, ma presenta Maria come la “nuova Eva” (in parallelo a Cristo “nuovo Adamo”), cooperatrice dell’obbedienza redentrice del Figlio, a lui strettamente legata e subordinata. Questa è la radice teologica della successiva dottrina della mediazione mariana.

Pseudo-Efrem, Oratio ad Deiparam

“Dopo il Mediatore, tu sei la mediatrice di tutto il mondo.”

La critica testuale moderna concorda che questo testo non proviene da sant’Efrem il Siro, ma da un autore anonimo più tardo, forse VI–VIII secolo.
Nei testi originali di sant’Efrem non esiste l’espressione “mediatrice di tutto il mondo”.
L’autore vede Maria come colei che intercede presso Cristo per l’umanità, ma sempre subordinata a Lui.

San Cirillo d’Alessandria, Homilia IV in Deiparam et contra Nestorium

“Per mezzo di te, o Madre di Dio, il cielo esulta; per mezzo di te gli angeli e gli arcangeli si rallegrano; per mezzo di te i demoni sono cacciati; per mezzo di te la creatura decaduta è portata al cielo. Per mezzo di te tutta la creazione, prigioniera dell’idolatria, ha conosciuto la verità.”

San Cirillo anche se non usa esplicitamente il termine “mediatrice”, ripete molte volte “dià sou” (“per mezzo di te”), indicando chiaramente una funzione mediatrice nella storia della salvezza.

San Germano di Costantinopoli, Homilia in Praesentationem Deiparae

“Nessuno è salvato se non per mezzo tuo, o Madre di Dio; nessuno è liberato se non per mezzo tuo; nessuno riceve un dono se non per mezzo tuo, o piena di grazia.”

San Germano esprime un’idea molto sviluppata della mediazione di Maria: ogni grazia passa “per mezzo di lei”, non come fonte autonoma, ma come strumento scelto da Dio per trasmettere la grazia del Salvatore.

San Andrea di Creta, Homilia I in Nativitatem Deiparae

“Per mezzo di te Dio si è unito agli uomini,
e l’uomo è stato elevato in Dio; per mezzo di te la natura del Creatore è stata unita alla creatura; per mezzo di te l’umanità è stata portata a Dio.”

San Andrea collega la mediazione di Maria direttamente al mistero dell’Incarnazione: Maria è mediatrice perché attraverso di lei avviene l’unione tra Dio e l’umanità nel Cristo incarnato.

Sant’Ambrogio di Milano, De Mysteriis, III, 13

“Questa è la Vergine che concepì nel suo grembo, che generò la redenzione di tutto il mondo; nel suo grembo portava la remissione dei peccati.”

Sant’Ambrogio non usa il termine “mediatrice”, ma la sua affermazione che Maria “ha generato la redenzione” esprime una cooperazione reale nell’opera salvifica: la nascita di Cristo Redentore è passata per Maria.
Non si tratta di una dottrina di “mediazione autonoma”, ma di una affermazione cristologica: in Maria si compie la redenzione perché in lei si è incarnato il Redentore.

San Giovanni Damasceno, Homilia I in Dormitionem Deiparae

“O Signora, tutta la terra è piena della tua bontà; poiché per mezzo tuo siamo stati riconciliati con Dio.”

San Giovanni Damasceno descrive Maria come “strumento di riconciliazione” tra Dio e l’umanità. Loda la Madre di Dio come mediatrice della salvezza, non per sé ma perché da lei è nato il Mediatore.
Il Damasceno esprime in linguaggio liturgico la funzione mediatrice subordinata di Maria, molto tipica della teologia bizantina.
La frase rientra nel tono laudativo e teologico delle Homiliae in Dormitionem, che uniscono mariologia e soteriologia.

Sant’Agostino, De Sancta Virginitate, 6

“Maria è veramente Madre delle membra di Cristo, poiché cooperò con la sua carità alla nascita dei fedeli nella Chiesa, i quali sono le membra di quel Capo.”

Sant’Agostino non usa il termine “mediatrice”, ma afferma chiaramente che Maria “cooperò con la sua carità” alla nascita dei cristiani nella fede. Qui appare l’idea di cooperazione materna nella vita di grazia: Maria non è solo Madre del Capo (Cristo), ma anche delle membra (i cristiani).

San Leone Magno, Sermo I (XXI) in Nativitate Domini, cap. 3

“Colei che meritò di concepire il Signore della maestà, perché fosse causa di salvezza per tutti, concepì prima nella mente ciò che avrebbe generato nel corpo.”

San Leone descrive Maria come “causa di salvezza”, non nel senso di sostituire Cristo, ma di essere lo strumento umano scelto da Dio. È la linea classica della “cooperazione” subordinata alla mediazione unica del Figlio.

San Pietro Crisologo, Sermo 140

“Il Verbo di Dio volle entrare nel grembo della Vergine affinché ciò che era caduto in Eva potesse essere restaurato in lei. Così il genere umano fu redento per mezzo di una donna,
come per mezzo di una donna era caduto.”

San Pietro Crisologo sviluppa il parallelismo Eva–Maria: Maria è la “nuova Eva” che collabora al ritorno dell’uomo a Dio. Questo linguaggio è uno dei fondamenti più antichi del titolo di Mediatrice.

San Venanzio Fortunato, Carmina, I, 5

“Tu, o Vergine, sei il cammino per il cielo, la scala per salire al Regno.”

L’immagine di Maria come “scala” o “via” è tipica della teologia della mediazione: attraverso di lei si giunge a Dio, come per mezzo della scala di Giacobbe.
È un esempio della mariologia poetica tardo-antica, che enfatizza la cooperazione della Vergine nella vita spirituale dei fedeli.

San Fulgenzio di Ruspe, Sermo 2 de Nativitate Domini

“Maria è la scala del cielo, per la quale Dio discese sulla terra, affinché gli uomini potessero ascendere al cielo per mezzo di lei.”

San Fulgenzio riprende e rafforza l’idea di “scala”: Maria è mediatrice perché in lei avviene l’incontro tra cielo e terra. La mediazione qui è ontologica e incarnatoria, non solo devozionale.

San Bernardo di Chiaravalle, Sermo in Nativitate Beata Mariae, 7

“Dio volle che nulla ci giungesse se non per mezzo delle mani di Maria.”

San Bernardo è il più celebre dottore medievale a sistematizzare la dottrina della mediazione universale di Maria. Tutte le grazie — dice — passano per lei, non perché aggiunga qualcosa a Cristo, ma perché è la distributrice delle grazie del Figlio.

Sermo de Aquaeductu, 4

“Come per mezzo di Maria ci fu data la salvezza, così per mezzo di Maria speriamo di ottenere la grazia della vita eterna.”

Qui Maria è chiamata aquaeductus, l’acquedotto della grazia divina: l’immagine più bella e classica della sua funzione di mediatrice.

San Bonaventura, Speculum Beata Mariae, Lectio VI

“Dio ha collocato tutti i beni in Maria, affinché, se vi è qualche speranza in noi, se vi è qualche grazia, essa rifulga su di noi da lei.”

Maria come piena di grazia, è vista come canale ordinato della benevolenza divina, modello di santità e mediazione subordinata.
San Bonaventura enfatizza che la grazia che riceviamo proviene dalla pienezza di Maria, ma sempre in relazione a Cristo.
La lectio si colloca nella tradizione della mariologia francescana e medievale, strettamente collegata alla teologia della mediazione universale subordinata.

Dai Padri (orientali e occidentali) emergono ricorrenti motivi teologici e pastorali che abbiamo visto nella raccolta precedente.
I Padri insistono che l’Incarnazione e la nascita del Redentore sono avvenute per mezzo di Maria: in questo senso ella è “canale”, “via”, “scala” o “ponte” tra il Cielo e la terra.

Molti testi la presentano come colei che supplica, intercede, ottiene misericordia e grazie per il popolo; la sua preghiera ha efficacia per i fedeli, sempre però in rapporto e subordinazione al Figlio.

Riprendendo il parallelismo Eva–Maria, i Padri mostrano Maria come “obbediente” dove Eva disobbedì: la sua obbedienza è fonte di cooperazione alla redenzione (non causa autonoma).
Nei Padri la mediazione mariana è sempre presentata come partecipazione alla sola e unica opera mediatrice di Cristo. Maria non soppianta né duplica il ruolo del Redentore.

Nei testi orientali (Inno, Akathist, Minei) la mediazione di Maria è prima di tutto esperienza liturgica e affidamento popolare; nei latini si sviluppa anche una riflessione teologica e pastorale più sistematica.

Il Magistero cattolico riconosce le ricchezze della tradizione patristica e medievale sulla mediazione mariana, ma ricorda con chiarezza che Cristo è l’unico Mediatore della salvezza. La mediazione attribuita a Maria è posta in termini di partecipazione, subordinazione e dipendenza dall’unica mediazione di Cristo.

Nei documenti, nella predicazione papale e nella teologia postconciliare si trovano tre idee abbinate:

  1. Intercessione materna: Maria è Madre della Chiesa e intercede per i fedeli.
  2. Cooperazione nella redenzione: la sua obbedienza e maternità hanno cooperato – in modo subordinato al Figlio – nell’opera redentrice di Cristo.
  3. Distribuzione delle grazie: nella pietà cristiana Maria è vista come colei attraverso la quale molte persone implorano e ricevono grazie dal Figlio (modo strumentale).

La Chiesa non ha definito dogmaticamente Maria come “Mediatrice”. Alcune espressioni devozionali e teologiche (es. “Mediatrice di tutte le grazie” in forme popolari) sono per lo più riconosciute come pio linguaggio e disciplinate con prudenza dalla teologia ufficiale.

Nella Scrittura e nella dottrina la mediazione redentiva è un atto salvifico univoco di Gesù Cristo (espressione teologica: mediazione unica, universale, salvifica). La “mediazione” mariana va vista in rapporto a questo principio.

Il termine “corredentrice” se inteso come “partecipazione subordinata e strumentale alla redenzione operata dal Cristo” è compatibile con la tradizione, ma se interpretato come “altra fonte di redenzione” diventa inaccettabile. Per questo la teologia ufficiale preferisce linguaggi che mettano in rilievo la subordinazione a Cristo (es. “cooperatrice nella redenzione”, “avvocata”, “mediatrice in senso partecipato”).

Nella preghiera della Chiesa (specialmente nelle tradizioni orientali), Maria è invocata come Madre e mediatrice di misericordia.
Queste invocazioni hanno carattere comunitario e non sostituiscono la centralità eucaristica di Cristo.

Immagini di devozione popolare come “tutte le grazie passano per le sue mani” sono molto diffuse e vanno incoraggiate nella misura in cui aiutano la vita cristiana e non generano dipendenza da un culto contestuale erroneo.

Occorre insegnare la distinzione tra mediazione unica di Cristo e mediazione partecipata di Maria, per evitare equivoci teologici e pastorali.

La tradizione patristica offre solide basi per parlare di Maria come interceditrice e cooperatrice nella storia della salvezza; la Chiesa moderna conferma questo senso, ma richiama con fermezza l’unità e la singolarità della mediazione di Cristo. Il linguaggio “Mediatrice” è quindi comprensibile e sostenuto dalla tradizione, purché venga sempre interpretato nella prospettiva della subordinazione e partecipazione alla mediazione di Gesù.

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