A cura di Giuseppe Monno

Il Concilio di Nicea I, celebrato nel 325 nella città di Nicea (l’attuale İznik, in Turchia), rappresenta il primo concilio ecumenico della storia della Chiesa e uno dei momenti più decisivi nella definizione della fede cristiana. Fu convocato dall’imperatore Costantino, desideroso di ristabilire l’unità religiosa e politica dell’Impero, turbata dalle accese controversie teologiche sorte attorno all’insegnamento di Ario, presbitero di Alessandria.
Ario sosteneva che il Figlio di Dio, pur essendo la creatura più eccellente e superiore a tutte le altre, non fosse eterno come il Padre. Secondo lui, «ci fu un tempo in cui il Figlio non era» ed egli era dunque creato, non generato, e quindi inferiore al Padre. Questa dottrina, nota come arianesimo, metteva in discussione il cuore stesso del cristianesimo: se Cristo non è pienamente Dio, allora neppure la salvezza portata da Lui può essere pienamente divina ed efficace per l’umanità.
Contro Ario si schierarono con forza il vescovo Alessandro di Alessandria e il suo giovane e brillante diacono Atanasio, destinato a diventare uno dei più grandi difensori dell’ortodossia cristiana. Essi affermavano che il Figlio è eterno come il Padre, realmente Dio, non inferiore né diverso per natura, ma uguale a Lui nella divinità.
Sebbene la questione ariana fosse la principale ragione del concilio, essa non fu l’unica. Costantino e i vescovi erano consapevoli che la Chiesa, uscita da poco dalle dure persecuzioni imperiali, era attraversata da numerose divisioni. In Egitto, ad esempio, era in corso il cosiddetto scisma meleziano, guidato da Melezio di Licopoli, che aveva creato una gerarchia parallela, ordinando vescovi e sacerdoti senza l’autorizzazione del vescovo legittimo di Alessandria. Questo scisma rappresentava una seria minaccia all’unità ecclesiale e richiedeva una soluzione ufficiale e condivisa.
Un’altra questione importante riguardava la data della celebrazione della Pasqua. In alcune regioni si seguiva ancora il calendario ebraico, mentre in altre la festa veniva celebrata di domenica. Questa differenza causava confusione e divisione tra le comunità cristiane. Il concilio stabilì dunque che la Pasqua dovesse essere celebrata nello stesso giorno in tutta la Chiesa, di domenica, e in modo indipendente dal calendario ebraico, come segno visibile di unità.
Vi era inoltre la necessità di stabilire una disciplina comune per tutta la Chiesa, poiché le comunità cristiane, diffuse in territori vastissimi, seguivano spesso usi e regole diverse per quanto riguardava l’ordinazione dei chierici, la vita morale, le penitenze e l’organizzazione interna. Il concilio intervenne quindi anche su questi aspetti pratici e organizzativi.
Il punto centrale delle decisioni dottrinali del Concilio fu l’affermazione che il Figlio è “consustanziale” al Padre, utilizzando il termine greco “homoousios”, che significa “della stessa sostanza”. Con questa parola i padri conciliari dichiararono in modo definitivo che Gesù Cristo non è una creatura, per quanto eccelsa, ma è veramente Dio, della stessa natura divina del Padre. La dottrina ariana fu condannata come eretica e Ario, insieme ad alcuni suoi sostenitori, fu escluso dalla comunione ecclesiale.
Dal Concilio nacque anche il Simbolo di Nicea, una solenne professione di fede che costituisce ancora oggi uno dei pilastri della dottrina cristiana. In esso si proclama: «Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente… e in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, unigenito del Padre… Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, consustanziale al Padre». Questo testo divenne un riferimento essenziale nella lotta contro tutte le eresie che, nel corso dei secoli, avrebbero messo in discussione la natura divina di Cristo.
Oltre alla definizione di fede, il Concilio promulgò anche venti canoni disciplinari, destinati a regolare la vita e l’organizzazione della Chiesa. Essi stabilivano, tra le altre cose, che un vescovo dovesse essere consacrato da almeno tre vescovi con il consenso del metropolita; vietavano al clero comportamenti scandalosi, come la convivenza con donne non legate da vincoli familiari; proibivano l’usura tra i chierici e il trasferimento arbitrario di vescovi e sacerdoti da una diocesi all’altra. Venivano inoltre stabilite le condizioni per la riammissione di coloro che avevano rinnegato la fede durante le persecuzioni (i cosiddetti lapsi) e di chi apparteneva a gruppi considerati scismatici o eretici, come i novaziani e i paoliniani. Un ultimo canone stabiliva che durante la domenica e nel tempo pasquale si dovesse pregare in piedi e non in ginocchio, perché la posizione eretta era considerata segno di gioia e di risurrezione.
Il ruolo di Atanasio, successivamente divenuto vescovo di Alessandria, fu decisivo nei decenni seguenti. Nonostante ripetuti esili, persecuzioni e il ritorno dell’arianesimo favorito da alcuni imperatori, egli rimase fermo nella difesa della fede nicena, contribuendo in modo determinante alla sua affermazione definitiva.
L’arianesimo, infatti, non scomparve immediatamente: continuò a diffondersi per lungo tempo, soprattutto tra alcuni popoli germanici, e trovò appoggi politici anche dopo il concilio. Tuttavia, grazie all’opera di vescovi, teologi e successivi concili, la dottrina nicena prevalse e si affermò come fondamento della fede cristiana ortodossa.
Oggi il Concilio di Nicea I è riconosciuto come un evento fondamentale non solo dalla Chiesa cattolica e dalle Chiese ortodosse, ma anche da molte confessioni protestanti. La sua eredità continua a plasmare la comprensione cristiana della Trinità e della piena divinità di Gesù Cristo, rendendolo uno dei momenti più importanti e decisivi dell’intera storia del cristianesimo.