A cura di Giuseppe Monno

Gesù Cristo, pur essendo Figlio di Dio, sceglie di chiamare se stesso “Figlio dell’uomo” per rivelare pienamente il mistero della sua identità e della sua missione.
Con questo titolo egli sottolinea di aver assunto in tutto la nostra condizione umana. È realmente uno di noi: ha carne e sangue, sentimenti, fatica, dolore e sofferenza. Condivide la nostra vita fino in fondo, con l’unica eccezione del peccato.
Il titolo “Figlio dell’uomo” manifesta l’umiltà del Verbo incarnato. Gesù non è venuto a dominare come i potenti della terra, ma a servire e a donare la sua vita. Chiamarsi così significa non porsi al di sopra degli uomini, ma vivere in mezzo a loro.
Nella visione del profeta Daniele (7,13-14) appare «uno simile a un figlio d’uomo» al quale Dio consegna potere, gloria e regno eterno. Quando Gesù usa questo titolo, richiama quella profezia: egli è il Figlio dell’uomo che, dopo la passione e la morte, sarà innalzato e giudicherà i popoli. In lui si compie la profezia: umiliazione e gloria, croce e risurrezione, abbassamento e innalzamento.
Gesù, dunque, chiama se stesso “Figlio dell’uomo” perché questo è un titolo messianico che unisce due aspetti inseparabili: la sua solidarietà con noi nella debolezza e nella sofferenza, e la sua esaltazione nella gloria di Dio. Così possiamo riconoscere che Dio si è fatto veramente uomo, e che Gesù è l’unico Salvatore, colui che unisce in sé il cielo e la terra.