CELIBATO ECCLESIASTICO

A cura di Giuseppe Monno

Nel Vangelo secondo Matteo troviamo un riferimento al celibato come possibile vocazione: Cristo menziona coloro che «si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli» (Matteo 19,12). In Oriente antico, gli eunuchi erano spesso schiavi castrati, impiegati in compiti delicati come la custodia dell’harem. Tuttavia, il termine poteva anche riferirsi a persone che non potevano avere figli per motivi naturali, o – nel contesto evangelico – a coloro che scelgono liberamente la continenza in vista del Regno di Dio.

Gesù, con un’evidente iperbole – una figura retorica utile a colpire l’immaginazione e a imprimere il messaggio nella memoria – fa riferimento a chi, per scelta e vocazione, decide di rinunciare al matrimonio per dedicarsi interamente alla missione evangelica. Questa chiamata, tuttavia, è possibile solo come dono di Dio: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Giovanni 15,16).

Anche San Paolo, celibe per vocazione, affronta il tema nella Prima Lettera ai Corinzi: «Vorrei che tutti fossero come me, ma ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro» (1 Corinzi 7,7). In seguito aggiunge: «Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso» (1 Corinzi 7,32-33). Non si tratta di un obbligo, ma di una scelta consigliata per chi vuole dedicarsi interamente a Dio, senza distrazioni.

In merito alla condizione matrimoniale degli apostoli, alcuni indizi nei Vangeli ci permettono solo ipotesi. Pietro, per esempio, aveva una suocera (Matteo 8,14-15), ma la moglie non viene mai citata, il che ha fatto supporre ad alcuni esegeti che fosse vedovo, anche se non esiste una conferma esplicita. Riguardo agli altri apostoli, Paolo afferma: «Non abbiamo forse il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?» (1 Corinzi 9,5). Il testo originale parla di “adelphèn gynaîka”, che letteralmente significa “donna sorella”, e può significare semplicemente “una donna credente”. Paolo potrebbe qui riferirsi a compagne di missione, non necessariamente mogli, secondo l’uso greco del termine.

Lo stesso Paolo, nel contesto della sua riflessione sull’apostolato, difende il diritto degli annunciatori del Vangelo di essere mantenuti dalla comunità (1 Corinzi 9,1-12), includendo anche l’eventuale sostegno a familiari o compagni di viaggio.

Anche Gesù era accompagnato e assistito da donne credenti durante il suo ministero: Maria Maddalena, Maria di Cleopa, Salome, Giovanna, Susanna e molte altre (Luca 8,2-3; Matteo 27,55-56). Queste donne avevano un ruolo importante nel sostenere materialmente e spiritualmente il cammino di Cristo e dei suoi discepoli.

Nel Nuovo Testamento troviamo anche indicazioni riguardo ai ministri ordinati. Nella Prima Lettera a Timoteo si legge che il vescovo deve essere “marito di una sola donna” (1 Timoteo 3,2), cioè monogamo, con buona condotta familiare. Questo mostra come, nei primi tempi della Chiesa, fosse possibile che vescovi e presbiteri fossero sposati, purché conducessero una vita integra. Tuttavia, con l’evolversi della disciplina ecclesiastica, soprattutto in Occidente, la Chiesa latina ha ritenuto più opportuno esigere la continenza perfetta dai ministri ordinati.

In particolare, il Concilio di Elvira (305) stabilì, al canone 33, che i chierici sposati dovevano astenersi dai rapporti coniugali. Tale orientamento fu confermato dal Concilio di Cartagine (390), che richiese l’astinenza sessuale permanente per vescovi, sacerdoti e diaconi, anche se sposati. Il Concilio Lateranense IV (1215) rafforzò questa disciplina vietando l’ordinazione agli uomini sposati nella Chiesa latina. Il Concilio di Trento (1563), in risposta alla Riforma protestante, difese il celibato ecclesiastico e istituì i seminari per la formazione dei futuri presbiteri, che dovevano vivere nella castità perfetta fin dalla loro formazione.

Il Concilio Vaticano II (1965), con il decreto Presbyterorum Ordinis, ha ribadito il valore del celibato sacerdotale, sottolineandone il significato escatologico: il sacerdote, in quanto rappresentante sacramentale di Cristo Capo e Sposo della Chiesa, anticipa nel suo stato di vita la realtà del Regno futuro, dove “non si prende né si dà in matrimonio” (Matteo 22,30). Il celibato, quindi, non è una negazione della sessualità o del matrimonio, ma una scelta di consacrazione esclusiva a Dio e al servizio della Chiesa, resa possibile per grazia e rafforzata da una profonda vita spirituale.

La disciplina del celibato non è di diritto divino, ma ecclesiastico, quindi può essere modificata. Infatti, nella Chiesa cattolica di rito orientale, esistono sacerdoti sposati, anche se l’episcopato è riservato ai celibi.

Tuttavia, la scelta di mantenere il celibato obbligatorio per i sacerdoti latini è motivata da ragioni teologiche, pastorali e spirituali, che la Chiesa continua a considerare valide.

Pubblicato da Cristiani Cattolici Romani

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